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Petrolio: i prezzi a torneranno a crescere dopo il 2016

Nel vertice straordinario di Algeri l'Opec ha deciso di limare la produzione petrolifera dell'area, ma i prezzi torneranno a crescere solo dal 2017
di Matteo Buttaroni

L’Opec (l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) ne è sicura: almeno per il 2016 il prezzo del barile di greggio non salirà, mantenendosi intorno alla soglia dei 40 dollari al barile. Tuttavia, una crescita è prevista dal prossimo anno fino al 2020. Entro tale data, infatti, il barile potrebbe tornare intorno ai 60 dollari (sulla scia di un aumento della domanda), ma ritoccare i livelli di inizio 2014 sarà dura. Da allora, infatti, il prezzo del barile di petrolio è diminuito notevolmente arrivando a toccare anche i 27,10 dollari al barile nel gennaio del 2016.

schermata-2016-11-08-alle-13-58-46Occhi puntati sul prossimo vertice di Vienna, quando si decideranno le quote estrattive di ogni Paese Opec

Osservando le serie storiche si può notare come il periodo maggiormente interessato dai cali sia stato il secondo semestre del 2014, quando il prezzo del greggio è sceso dai 109,7 dollari della chiusura di giugno ai 55,81 dollari toccati nel minimo mensile di dicembre dello stesso anno. Da lì in poi le quotazione hanno registrato un andamento altalenante per tutti i mesi a seguire, arrivando a toccare i 48,26 dollari della media massima relativa al mese di novembre.
Stiamo dunque parlando di un prezzo inferiore alla metà di quello registrato due anni fa. Ma come si è arrivato a questo punto? Le cause sono molteplici ma tutte legate ad un comune denominatore: il rallentamento dell’economia a livello mondiale, a cui si sono aggiunti l’autosufficienza statunitense e il ritorno in campo dell’Iran (grazie alla revoca delle sanzioni in seguito all’accordo sul nucleare).
Mentre, infatti, i consumi dell’Eurozona risultavano ancora indeboliti a causa della crisi economica, anche i Paesi emergenti hanno cominciato a registrare dei rallentamenti (basta guardare la Russia a causa delle sanzioni o la Cina, che ha deciso di puntare sui consumi interni e meno sull’export).
A tutto ciò si è poi sommata la produzione home made degli Stati Uniti (un tempo primo importatore al mondo), che estraendo shale oil attraverso la tecnica del fracking, ha cominciato ad acquistarne sempre meno dall’estero. Tutti fattori che però non hanno convinto i Paesi esportatori a dare un taglio alla produzione anzi, gli stessi hanno infatti deciso di continuare a estrarre, contando proprio sui prezzi bassi per tentare di sbaragliare la concorrenza.
Una mossa che, a quanto pare, non ha dato i risultati sperati. A subire le conseguenze delle quotazioni esigue sono stati proprio quei Paesi, come l’Arabia Saudita, appunto membro dell’Opec, (che ultimamente ha varato un piano di riforme, denominato “Vision30”, per rendere il Paese indipendente dal petrolio), per i quali il greggio è la fonte principale delle entrate statali (circa il 90%).
Ora gli occhi sono tutti puntati sul prossimo vertice di Vienna (che si terrà il 30 novembre), durante il quale si decideranno le quote estrattive che ogni membro dell’Organizzazione dovrà rispettare. Già il 28 settembre l’Opec si riunì in un vertice straordinario (ad Algeri) durante il quale si raggiunse un accordo che sanciva un taglio della produzione dell’area da 33,4 milioni di barili al giorno a 32,5/33 milioni. Accordo che però al momento non sembra esser stato rispettato (probabilmente proprio per la mancanza di limiti predisposti): a ottobre sono stati prodotti oltre 34milioni di barili al giorno.

 

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