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Narcisismo o denunce, così corrono le informazioni online

A volte è insaziabile necessità di voler apparire a tutti i costi, in altre l'opportunità di riscattarsi e fare del bene. La doppia morale dei social (e dei suoi utenti, soprattutto)
di Silvia Capone

La dichiarazione del 29enne che domenica scorsa ha fatto una diretta Facebook, riprendendo un giovane, poi morto, dopo l’incidente in motorino («Mi sono messo a filmare e volevo fare una diretta, volevo condividere il mio dolore. Non cercavo lo scoop ora ho capito di aver sbagliato e chiedo scusa a tutti») è naturalmente volta a smentire quel che invece è apparso subito agli utenti collegati: l’esigenza di diffondere una notizia “acchiappa like”. Quali che fossero le sue reali intenzioni, il ragazzo è stato criticato in maniera aspra sui social. Il gesto può rappresentare l’estremizzazione della vita in diretta, della necessità – quasi – di dover testimoniare le proprie esperienze. Nata come tendenza modaiola, quella di riportare al pubblico le proprie vicende, condividere ovunque qualsiasi cosa, è una pratica ormai sfociata in una spasmodica ricerca dell’esclusivo, tanto da spingere alcune persone ad azioni avventate e poco sicure pur di stupire follower e amici.

È ciò che è accaduto con i selfie che, per distrazione o per pose temerarie, hanno causato dal 2014 ad oggi la morte di oltre 150 persone. Il fenomeno è così noto da avere una propria denominazione “killfie” e anche una pagina dedicata Wikipedia, che riporta 90 vittime, tra morti e feriti, nel solo 2017. Precursore della moda dell’estremo è Alexander Remnev un free climber russo, famoso per postare selfie in cima ai grattacieli più alti del mondo. I suoi scatti hanno richiamato emulatori improvvisati, ma in generale la mania del selfie perfetto riguarda qualsiasi tipo di informazione condivisibile sui social, in modo da soddisfare il desiderio delle persone di sentirsi protagoniste oltre all’esigenza, narcisistica, del “voler apparire” a tutti i costi. Tramite i social, d’altro canto, si amplifica la platea di “spettatori” di un’interazione – intesa come condivisione di informazioni – come se aggiornare “gli altri”, sempre e ovunque, fosse una questione imprescindibile.

Controparte del bisogno di comunicare la nostra vita in tutte le sue sfaccettature è la modalità video-denuncia che, in linea di principio, sfrutta lo stesso potenziale di impatto su un numero di persone che sia il più ampio possibile, ma con lo scopo di denunciare online ingiustizie e soprusi. Gli Stati Uniti hanno fatto scuola negli ultimi anni, soprattutto con la testimonianza di tanti giovani afroamericani alle prese con gli agenti di polizia. Il caso più famoso è avvenuto l’estate del 2016 quando il video di Philando Castile, giovane ucciso in Minnesota dalla polizia, fu postato dalla fidanzata che assisteva inerme. Altri fatti di denuncia tramite condivisioni social hanno riguardato molestie fisiche, come quello della commentatrice della Cnn, Angela Rye, che in aeroporto ha dovuto subire controlli aggressivi, o ancora la campagna lanciata di recente sui social #quellavoltache, hashtag tramite cui si è voluto sensibilizzare le donne vittime di molestie incoraggiandole a parlare e denunciare. Ecco, allora, che condividere qualcosa sui social può diventare necessaria oltre che opportuna e permettere ad altri utenti di trovare coraggio, fare rete. Due facce, insomma, della stessa medaglia.

 

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