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Chi sono i «gig workers»

Un tema più che mai attuale dopo che la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta sui rider, i fattorini che consegnano cibo a domicilio

di Redazione

La Procura di Milano apre un’inchiesta sui rider, i fattorini che consegnano cibo a domicilio. Il Corriere della Sera ha pubblicato questi giorni un’inchiesta sul caporalato digitale, «scoprendo account italiani venduti a migranti irregolari». L’indagine della Procura di Milano, scrive l’Ansa, «oltre alla violazione delle norme antinfortunistiche e di sicurezza stradale, intende far luce anche sull’aspetto di sfruttamento dei lavoratori e tra i lavoratori, come il caporalato, e sulla presenza di clandestini. Infatti, ad agosto, dai controlli di 30 rider sono stati trovati tre lavoratori clandestini, senza documenti in regola». Ma chi sono, in teoria, i rider? Sono lavoratori che si collocano nell’ambito della gig economy, “l’economia dei lavoretti” o “on demand”, un modello secondo cui liberi professionisti o autonomi accumulano reddito negli archi di tempo in cui manca il lavoro, o arrotondano se il lavoro non è sufficiente a soddisfare i propri bisogni. Di questo avevamo già scritto a fine 2018, citando uno studio della Banca d’Italia, Il lavoro nella gig economy. Evidenze dal mercato del food delivery.

Spesso privi di tutele garanzie, dallo studio emergeva come in prevalenza i lavoratori coinvolti siano giovani con un elevato turn-over, altamente istruiti e che utilizzano il lavoro tramite piattaforme per integrare redditi o attività secondarie. Il governatore della California, Gavin Newsom, ha firmato la norma che dichiara dipendenti i lavoratori della gig economy, colpite soprattutto aziende come Uber e Lyft. Si tratta di un cambio di paradigma radicale, alla luce delle osservazioni di Cristina Giorgiantonio e Lucia Rizzica, che hanno condotto lo studio per la Banca d’Italia:

«La rapida crescita del fenomeno ha sollevato, prima all’estero e poi in Italia, un ampio dibattito circa le tipologie di inquadramento contrattuale da adottare per il lavoro a chiamata tramite piattaforma e circa l’estensione delle tutele da accordare ai gig worker. La grande varietà che si riscontra nel tipo di intermediazione fornita dalle piattaforme digitali, e di conseguenza nella loro capacità di imporre salari e condizioni di lavoro, ha generato una forte frammentarietà nelle iniziative di regolamentazione adottate all’estero e nel nostro paese». «Le modalità d’impiego utilizzate dalle piattaforme per tali lavoratori sono piuttosto variegate, ma tutte al di fuori del perimetro della subordinazione configurando, invece, fattispecie di lavoro autonomo».

Per quanto riguarda l’Italia e con riferimento alle piattaforme (17) di food delivery (settore oggetto di analisi nello studio di Banca d’Italia) inizialmente individuate, «solo 12 sono state rintracciate negli archivi ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro) e, di queste, solo cinque riportavano assunzioni di addetti alle consegne (rider). In totale, quindi, sono stati individuati 3.876 contratti di lavoro di addetti alle consegne nelle imprese di food delivery, corrispondenti a 2.947 lavoratori attivi tra il 2012 e il 2017. Il trend osservato nel numero di contratti avviati e nel numero di quelli in essere (avviati e non scaduti) per trimestre, secondo i dati presenti nelle CO (Comunicazioni Obbligatorie) potrebbe sottostimare in maniera significativa la reale entità del fenomeno. Un calcolo approssimativo suggerisce che il nostro campione di rider attivi a fine 2017 (1.757) corrisponde a circa il 23% del totale, un numero che si aggirerebbe intorno alle 7.650 unità, lo 0,04% circa degli occupati».

 

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