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Anche la moda è in difficoltà

Quest’anno i saldi estivi sono stati rimandati a causa del coronavirus per non vanificare gli effetti sui ricavi dei negozianti. A causa dell’emergenza ad essere in crisi non sono solo i negozi al dettaglio, ma tutta la filiera del settore

di Redazione

I saldi estivi iniziano tradizionalmente dal primo sabato di luglio. Quest’anno causa coronavirus sono stati rimandati in tutte le regioni, tanto che la maggior parte di esse ha deciso di posticiparli direttamente ad inizio agosto, per permettere ai negozi di sfruttare l’occasione di guadagno dei saldi in un periodo di ancora più consolidata normalità. Alcune regioni, come il Lazio, la Toscana e le Marche, hanno disposto l’inizio ufficiale dei saldi il 1° agosto, con la possibilità per i negozi di vendite promozionali anche nei trenta giorni precedenti.

I saldi estivi in questo momento post coronavirus avrebbero dovuto rappresentare la ripresa dei negozi fisici, che dopo il periodo di chiusura hanno anche dovuto investire per adeguarsi alle normative e hanno visto invenduto una completa stagione di capi appena arrivati. In realtà i dati che provengo dalle regioni che hanno iniziato i saldi a luglio non sono positivi: secondo Confesercenti Sicilia – regione che ha dato il via agli sconti il 1 del mese – l’80% dei commercianti rileva un calo significativo degli incassi. Inoltre, circa il 64% commenta negativamente la prima settimana di saldi rispetto allo scorso anno, mentre un 26% giudica ininfluente il peso delle vendite, quindi solo un 10% di negozianti è positivo.

Le possibili cause secondo gli esercenti intervistati non sono tanto nelle misure di prevenzione – come per esempio il distanziamento o il divieto di provare i capi – quanto più nella perdita di potere d’acquisto dei cittadini a causa della crisi dopo il coronavirus.

Ma non sono solo i negozi al dettaglio a subire la crisi, quindi i soli commercianti, ma tutta la filiera della moda, che vede rallentata la riapertura sia per le minori scorte di magazzino richieste dai negozi, sia perché il coronavirus comporta problemi per l’export – e quindi sempre sul versante delle vendite – che  per l’import di materie prime. Secondo Confindustria Moda, che ha rielaborato i dati dell’Inps per il settore, nel periodo gennaio-aprile 2020, il lockdown ha comportato un utilizzo massiccio della cassa integrazione anche per il settore tessile e moda: nei  primi quattro mesi dell’anno, le ore richieste sono triplicate rispetto a quelle ottenute per tutto il 2019, passando da 15.176.449 ad oltre 64 milioni di ore. Nel solo mese di aprile le ore autorizzate totali sono state 47.024.611.

Come testimoniano i dati sulla cassa integrazione e sulle vendite, nonché quelle sui retail che rischiano di non riaprire più – Federmoda ha stimato che questo rischio è reale per 17 mila punti vendita -,  il crollo dei fatturati delle aziende del settore della moda è una conseguenza inevitabile della crisi derivante dal coronavirus, ma appare particolarmente intenso per le aziende che producono capi in denim. Infatti, a seguito del lockdown negli Stati Uniti la Levi’s ha deciso di licenziare 700 persone, il 15% della sua forza lavoro totale, mentre un’altra azienda la Lucky Brand ha annunciato la chiusura di 13 dei suoi 200 negozi. La causa è il calo delle vendite che da una parte è direttamente imputabile alla crisi economica, dall’altra un ruolo fondamentale gioca il lockdown in modo indiretto, cioè con la preferenza di capi comodi e sportivi rispetto al jeans.

 

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