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“Una governance non all’altezza”

di Fabio Germani

Quando nel 2009 fu nominato presidente del Parlamento di Strasburgo, l’indomani delle elezioni europee, l’ex premier polacco Jerzy Buzek (il primo proveniente da un Paese ex comunista a ricoprire il ruolo), osservò quanto l’integrazione europea fosse importante per i cittadini. “Non possiamo cambiare l’Europa senza i suoi 500 milioni di cittadini”, disse. “Dobbiamo rendere la vita parlamentare interessante”.
A distanza di alcuni anni il paradigma sembra essere capovolto. La crisi – che pure già si era fatta sentire – appariva all’epoca meno insidiosa. Il Trattato di Lisbona doveva ancora essere ratificato (mancava infatti il secondo verdetto del referendum irlandese) e l’Europa era percepita come l’unica egida capace di affrontare le sfide del futuro. Oggi tale percezione è diametralmente opposta (cioè peggiorata, considerato che già nelle consultazioni del 2009 si registrò un exploit delle forze euroscettiche) e i distinguo in materia di politica comunitaria – messa a dura prova dai giudizi delle agenzie di rating – sono ormai all’ordine del giorno. A suggellare il ragionamento è intervenuto martedì il nuovo presidente del Pe, il socialdemocratico Martin Shulz (divenuto famoso in Italia nel 2003 per il diverbio con Berlusconi). “Per la prima volta dalla sua fondazione – ha affermato -, il fallimento dell’Unione europea non è un’ipotesi irrealistica. I governi da mesi passano da un vertice all’altro e tornano ad un periodo superato, quello del Congresso di Vienna. O vinciamo tutti insieme o perdiamo tutti insieme, perché la base fondamentale dell’Europa è il metodo comunitario, non un concetto tecnocratico, ma il principio al cuore di tutto quello che l’Ue rappresenta”. Un discorso di insediamento di tutt’altro tenore.
O si vince tutti insieme o si perde tutti insieme. Una delle maggiori lacune dell’Ue negli ultimi anni – aveva notato il professore di Diritto dell’Unione europea, Enzo Cannizzaro, intervistato per l’occasione da T-Mag – è stata “l’incapacità di sviluppare dinamiche politiche sovranazionali, che prescindano cioè dal consenso degli Stati membri”. Una circostanza resa tanto più vera dall’asse Berlino-Parigi che ricorda piuttosto “un ritorno ai procedimenti di carattere intergovernativo”.
La fitta agenda europea di Monti prevedeva l’incontro di mercoledì a Londra con “l’isolato” premier britannico, David Cameron. Il quale a inizio dicembre rifiutò il nuovo patto di bilancio (l’accordo fu trovato a 26 e non a 27) e soltanto poche settimane fa ha respinto l’ipotesi (avallata soprattutto da Sarkozy) di istituire una Tobin Tax sulla transazioni finanziarie.
“Più il Regno Unito si sente distante dalla costruzione europea, meno gli altri sono in grado di trarre vantaggio dalle molte buone cose che la Gran Bretagna può aiutarci a ottenere. Ci sono molte aree in cui sarebbe bene per tutti avere Londra al tavolo a pieno titolo”, aveva anticipato Monti in un’intervista all’Economist. “La volontà di lavorare insieme per il mercato unico è nell’interesse dell’Inghilterra e dell’Italia e sarà uno strumento per la crescita economica”, ha poi ribadito durante la conferenza stampa congiunta. Lo sviluppo e la crescita sono stati i temi al centro dell’incontro tra il premier italiano e il collega britannico. “Serve un’agenda a lungo termine sulla competitività e il deficit fiscale”, la posizione di Cameron.
E su ciò che dovrebbe fare Berlino per aiutare i partner europei – nel botta e risposta a distanza di queste ore il ministro tedesco dell’Economia, Philipp Roesler, ha risposto che la Germania ha già fatto molto – il presidente del Consiglio ha replicato: “Non credo che i Paesi dell’eurozona che sono individualmente in difficoltà, tra cui c’è l’Italia, abbiano niente da chiedere alla Germania, ma non è questo il problema. C’è il problema di una governance dell’eurozona non adeguata, non all’altezza della sfida”. Un po’ come a dire: o si vince tutti insieme o si perde tutti insieme.

 

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