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Le bandiere non vanno ammainate

di Gabriele Ziantoni

Spread, valori di borsa, tasso di inflazione, costo della benzina e prezzi delle case. Ci sono indici diversi per valutare le condizioni reali di un paese. Il trattamento riservato alle Bandiere.
Una nazione, viva e vitale, le lascia sventolare. Le annuncia con una fanfara. Le ostenta con malcelato orgoglio. Le guarda con rispetto e con un pizzico di malinconia. Se il tempo le confonde, interviene e le scioglie, le libera. Permette loro di proseguire in un continuo e incalcolabile lavoro. Se ferita, le abbassa. Le pone a mezz’asta, a mostrare che il dolore non è di un singolo componente, ma della comunità intera, della quale la bandiera rimane rappresentazione precisa.
Vecchie, sfilacciate, forse anche sbiadite, non vanno ripiegate. Gli va concessa la possibilità di decidere quando smettere e, nel caso, di annunciarlo. Per rispetto, più che per affetto. Un comportamento civile, più che umano.
E la cosa avviene in quasi tutti gli ambiti professionali.
Ai giornalisti in pensione, che, per anni, hanno riempito pagine e pagine di quotidiani, viene riservata spesso una rubrica. Un angolo, una colonna, più o meno ampia, all’interno della quale continuare a dar valore alle parole: per capacità e esperienza. Anche solo per il gusto di riprendere in mano la penna e darle lustro.
I professori universitari continuano a muovere il gesso sulla lavagna, il dito sui libri e gli occhi sulle tesi fino a quando ne hanno voglia. E anzi, più stagioni possono contare sulle loro mani, più si accresce il loro valore.
La cosa avviene in quasi tutti gli ambiti professionali. Ma non nello sport. Nel calcio in particolare. Una macchina spaventosa, un ingranaggio che, come moderni Charlie Chaplin, schiaccia chiunque non ha voglia di adeguarsi. O semplicemente è diventato un po’ più lento.
E come spesso accade quando qualcuno comincia a togliere, con sapienza, sassolini da quel muro che costruito di notte, ci impedisce di vedere al di là della strada, la frana è arrivata puntuale e fragorosa. O forse, semplicemente, ci abbiamo fatto più caso.
Il primo a parlare è stato Paolo Maldini: “Il Milan non mi vuole”, ha gridato dalle pagine del giornale sportivo più importante d’Italia. Un’icona rossonera, capace di passare indenne attraverso tutte le epoche della squadra meneghina, improvvisamente messo da parte. Addirittura schifato dai tifosi.
E che dire di Alessandro Del Piero, calciatore e professionista esemplare che all’apice della sua carriera, ovvero all’indomani della vittoria di un Mondiale, decise di seguire la Juventus in Serie B? Amore della maglia? Rispetto per i colori? Mettetela come credete sia meglio: il fatto non cambia. Avrebbe dovuto avere un saluto più degno e soprattutto avrebbe dovuto scegliere lui il momento per annunciare il suo ritiro. Non meritava le quattro fredde parole di Andrea Agnelli, presidente della Juventus, ma solo per discesa dinastica.
L’eccezione, però, esiste. E’ viva, reale. Quasi immortale. E si chiama Francesco Totti. Dato per finito centinaia di volte, il capitano della Roma ha saputo farsi spazio. Sempre. Per capacità e grande intelligenza. Ha saputo continuare a sventolare. Il suo popolo lo ha difeso, anche violentemente quando qualcuno, tanti a dire la verità, si sono arrampicati e a braccia tese hanno cercato di strapparlo via dalla sua asta. Non ci sono mai riusciti. E come premio i tifosi giallorossi hanno ricevuto tanto. L’ultimo regalo è stato il gol 211 che ha portato Totti, di diritto, al primo posto tra i bomber più prolifici della Serie A con la stessa maglia. Sbaragliando il record di Nordhal, campione svedese degli anni ’50, che durava da 53 anni. Un’eternità.
Questo è il motivo per cui l’abbraccio tra Totti e Del Piero, nell’ultimo Juventus-Roma che probabilmente li vedrà l’uno contro l’altro, a darsi battaglia fascetta al braccio, è stato così malinconico.
Per sempre Bandiere. Per sempre liberi di sventolare.

 

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