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La guerra di una Penelope cecena in scena al Vascello di Roma

di Veronica Adriani

Penelope in Groznyj è un colpo allo stomaco. Non per l’uso eccessivo ed esasperato della nudità, per la violenza delle scene, per i dialoghi forti. E’ un pugno allo stomaco perché racconta la guerra, non solo quella cecena, ma tutte le guerre. Uno spettacolo presentato dalla stessa compagnia come “parabola sprezzante di qualsiasi regime totalitario”, coniuga il mito omerico con i reportage di Anna Politkovskaja, strizzando al contempo l’occhio al Pasolini di Salò, o le 120 giornate di Sodoma, di cui mantiene la durezza e l’orrore.
La compagnia Mixò porta in scena un testo forte e di enorme impatto visivo, aiutato da una regia vivace e una scenografia minimalista ma assolutamente funzionale. Presentato nel 2009 al Kunsthaus Tacheles di Berlino ed arrivato nel 2010 e nel 2011 in Italia sui palchi dei teatri di Napoli e Milano, oggi Penelope in Groznyj è a Roma, al Teatro Vascello fino al 13 maggio, per la regia di Marco Calvani. Protagonista, una straordinaria Maria Mendizabal.
La Penelope che appare in scena ha ben poco di omerico: donna sola, moglie di un ex-ministro sospettato di collaborazionismo, viene rapita e torturata dai russi. È insidiata da un Antinoo folle, demoniaco, che ha come unico obiettivo la distruzione della popolazione civile, perché, dice, “per il semplice fatto di essere ceceni, sono colpevoli di tutto”.
Grozny, che tradotto in italiano suona come “spaventoso”, “terribile”, è una città devastata dalla guerra, una città in cui vagano i fantasmi di quelli che un tempo erano i suoi abitanti, e che ora sono solo ombre svuotate e impaurite. Laerte è un vecchio muto. Euriclea, la nutrice di Ulisse, l’incarnazione della speranza e dei valori di un islam destinato a scomparire. Le ancelle di Penelope, ragazze spaurite senza più dignità né futuro. Elena, una donna schiava della bellezza, simbolo della complicità col potere e della perdita totale dell’identità di popolo.
Come nel Pasolini di Salò, le umiliazioni psicologiche e fisiche sono riportate in scena con una crudezza e una veridicità tese volutamente a urtare la sensibilità dello spettatore. I corpi, al termine della pièce, sono ammassi di carne da macello, semplici “involucri”, come li chiamerà Penelope. Alle umiliazioni fisiche delle torture, degli stupri e dei soprusi di ogni genere, si alternano quelle morali, quelle che minano nel profondo la dignità della persona, cancellandone ogni parvenza di umanità.
Ma è impossibile individuare, in questa Penelope, personaggi unicamente positivi o negativi: in tempo di guerra i confini tra bene e male diventano labili, l’umanità sfugge. Si diventa ladri per fame, torturatori per noia: “la guerra è un modo per diventare uomini”, dirà un soldato russo in scena. Uomini che talvolta rimpiangono di essere nati, proprio come Antinoo, che potendo tornare indietro nel tempo ucciderebbe sua madre prima che potesse metterlo al mondo. Uomini che durante la guerra non riescono più a nascondere le proprie reali pulsioni sessuali, come il capitano Anfinomo, che ama – e poi uccide – lo studente che tiene prigioniero. E le donne? Ambivalenti anche loro, schiave della bellezza o forse solo legate alla vita, guerriere finché vale la pena di lottare, finché la paura non si impossessa di loro, o bambine a cui la vita ha strappato i sogni e la speranza.
La speranza è quella che manca a Groznyj. Nella notte della sconfitta, Penelope celebra il funerale della sua città, assistendo impotente alla rovina propria e di tutto ciò che ha intorno. Così termina lo spettacolo, lasciando nello spettatore un senso di orrore e smarrimento, esatta metafora del vuoto che lascia ogni guerra.

 

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