Il Principe della pop americana: Andy Warhol (1928-1987) | T-Mag | il magazine di Tecnè

Il Principe della pop americana: Andy Warhol (1928-1987)

di Stefano Di Rienzo

Attualmente nella sede del Castello Aragonese di Otranto, dopo aver raccolto all’interno delle sue possenti mura oltre 150 mila visitatori con le mostre di Joan Mirò, Pablo Picasso e Salvator Dalì, si sta svolgendo una mostra monografica su “Andy Warhol. I want to be a machine”, (27 aggio 2012-30 settembre 2012) il principe della Pop Art Americana.
La mostra curata da Gianni Mercurio, (studioso di arte americana che ha curato importanti mostre monografiche su Andy Warhol) apre la quarta stagione artistica del Castello di Otranto, contenitore culturale gestito dall’Agenzia di Comunicazione Orione di Maglie e dalla Società Cooperativa Sistema Museo di Perugia, con la direzione dell’architetto Raffaella Zizzarra (direttore artistico del Castello Aragonese di Otranto).
L’esposizione attraverso 50 opere provenienti da collezioni private italiane e prodotte da Andy Warhol con la tecnica meccanica della serigrafia, presenta i temi fondanti dell’estetica dell’artista statunitense: mito belezza-successo (Marylin Monroe,1962-1967), consumismo (Cambell’s Soup, 1960-61), simboli tragici (Electric Chair, 1967).
Inoltre saranno esposte opere significative come la serie dei “Flowers”,(1964) “il Vesuvio”(1985, realizzato in occasione del suo soggiorno napoletano grazie al gallerista Lucio Amelio), i simboli del potere (Falce e Martello, 1976; Dollar Sign, 1981) e altre numerose opere.
Andy Warhol è un’emblema della cultura americana degli anni Sessanta e Settanta. E stato pittore, grafico, pubblicitario, illustratore, scultore, produttore cinematografico, videoartista, animatore della vita mondana newyorkese, ma soprattutto grande comunicatore.
All’alba degli anni Sessanta, mentre dall’America si sviluppa l’interesse per una forma di comunicazione universale, l’arte diviene progetto di relazioni legate ad uno stile di vita aggregante e socializzante. In questa New York incontrastata capitale dell’arte, Andy Warhol sperimenta il suo progetto di rendere “meccanica” la pratica artistica: The reason I’m painting this way is that I want to be a machine”, dichiara. Le sue dichiarazioni non manifestano solo degli intenti artistici ma sono l’espressione di progetti e strategie che mirano a realizzare uno dei suoi principali desideri: corrompere spiritualmente l’arte delle immagini con l’arte della comunicazione, trasformare il proprio nome con qualcosa che sia simbolo e logo dello spirito del tempo, in modo che anche nelle situazioni più insospettabili sappia essere riconoscibile nell’universo artistico.
L’arte di Andy Warhol sopravvive alla stessa epopea pop che l’ha generata, essa è molto presente in molte forme di comunicazione e di espressione artistica, anche e sopratutto in quella più diffusa: la pubblicità. La strategia di chi vuole alimentare il desiderio di possesso delle masse e attribuire la condizione di status simbol agli oggetti domestici e di uso comune compresi quelli di lusso vede nella comunicazione pubblicitaria lo strumento più adatto a favorire lo scopo. Con i suoi dipinti Warhol fa qualcosa di simile: convinto che veniamo plasmati da ciò che sognamo e che su questo non possiamo esercitare nessun controllo per far breccia nell’inconscio collettivo, associa immagini di desiderio a colori accattivanti. Ciò che l’artista voleva era comunicare, rendere l’arte quando più popolare possibile, affascinare i ricchi e le star ma anche la gente comune come gli studenti o gli operai.
Artista come produttore e artista come comunicatore Warhol dà impulso alla produttività delle proprie innovazioni linguistiche, fondendo nell’opera il linguaggio immediato e quello della comunicazione, ecco perché comunicare è per lui è una strategia esistenziale, estetica e ideologica, una strategia talmente vincente che ne ha fatto l’artista più celebrato del Novecento.
Accanto alla sua anima artistica, Warhol rileva altri aspetti sorprendenti della sua personalità e della sua arte. Negli sterminati archivi del Warhol Museum è conservato un piccolo messale, regalo di sua madre quando Andy era bambino, che raffigura nella prima pagina una minuscola riproduzione dell’opera di Leonardo “L’Ultima Cena”, accanto ad essa una serie di appunti confusi e difficilmente leggibili. Due anni prima della sua morte Warhol inizia a lavorare a quello che è forse la più complessa opera della sua vita “The Last Supper”, (L’ultima Cena, 1985) non si tratta di una semplice rivisitazione in chiave postmoderna, quanto piuttosto del risultato finale di un percorso intimo che ha le sue radici in un forte senso di spiritualità a partire dalla sua formazione durante gli anni dell’infanzia e della prima giovinezza. Sicuramente ha avuto un ruolo fondamentale la religione di derivazione cecoslovacca-ortodossa (andava regolarmente a messa con la madre, ed è stato chierichetto per molti anni), l’isolamento totale dagli altri bambini a causa del suo precario stato di salute, l’estrema introversione del suo carattere, la consapevolezza di essere diverso.
L’intera opera di Warhol appare più chiara se si esamina la sua formazione religiosa e le sue radici culturali, che ne hanno permeato l’esistenza sotto differenti punti di vista contribuendo a renderlo la figura affascinante e contraddittoria che conosciamo. Warhol ben conosceva l’infinita varietà di immagini bizantine e gli arredi delle chiese, con la madre che una volta trasferitasi ad abitare da lui a New York aveva creato in casa addirittura un piccolo altare.
Di fronte a tali premesse è possibile leggere il lavoro dell’artista come il risultato di un’esistenza intrisa di valori tradizionali legati al culto religioso che interferiscono con il suo essere nella modernità. Così “Marlyn Monroe” effige ripetuta dal 1692 in serie partendo sempre dalla stessa immagine tratta dal film Niagara, che l’artista ha cominciato a realizzare poco tempo dopo la scomparsa tragica dell’attrice si trasforma in una delle icone più note. A questo indiscusso mito di bellezza simbolo di una felicità effimera l’artista dedica un infinito numero di versioni, trasformandola successivamente in un’icona nella serie su fondo oro, recuperando quindi un patrimonio visivo e concettuale assimilato sin da bambino osservando le icone dell’iconostasi della chiesa ortodossa di St. John Crysostom di Pittsburg che frequentava con la famiglia.

 

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