Tagliare i piccoli ospedali? Facile a dirsi, difficile a farsi. Ecco perché | T-Mag | il magazine di Tecnè

Tagliare i piccoli ospedali? Facile a dirsi, difficile a farsi. Ecco perché

di Matteo Romani

Sono il Santo Graal della razionalizzazione in sanità. Quando c’è bisogno di risparmiare nel variopinto, variegato e, soprattutto, malandato Servizio Sanitario Nazionale la prima idea è sempre quella: tagliare i piccoli ospedali. Gli ultimi a pensarci, in ordine di tempo, sono stati Monti ed i suoi ministri tecnici che, in piena spending review, hanno pensato bene di dare una bella sforbiciata ai nosocomi nostrani più modesti, non tanto come dimensioni, quanto piuttosto come utilizzo effettivo da parte dei cittadini.
Nulla di ufficiale per carità, ma le bozze che trapelano da Palazzo Chigi non lasciano dubbi. Si parla infatti di 216 strutture a rischio, con un taglio di circa 30mila posti letto. Numeri importanti, che certamente permetterebbero di ottenere un risparmio significativo. Ma tra il dire e il fare, come spesso capita c‘è di mezzo il mare. Un mare burrascoso, pieno di difficoltà, fatto di amministrazioni locali timorose di perdere voti e consensi, ricorsi in tribunale e comitati di cittadini inferociti.
Ma andiamo con ordine. Come scritto, Monti non è certo il primo ad aver pensato di chiudere i piccoli ospedali i quali, molto spesso, non sono utilizzati dagli stessi cittadini che preferiscono ricorrere a strutture più grandi e affidabili (o almeno così si spera). Forti di questa premessa tanti governatori e commissari ad acta hanno provato a chiudere ospedali o reparti. Attenzione però, il termine “chiusura” non è molto politcaly correct; fa perdere voti e calare il gradimento. I nostri amministratori preferiscono quello molto più cool di “riconversione”. In teoria, ti chiudo l’ospedale di periferia e ti creo al suo posto un ambulatorio o un presidio aperto di giorno in grado di soddisfare le più frequenti richieste di assistenza. In pratica chiudono e basta, anche per mancanza di fondi.
Uno scenario che rappresenta la quotidianità specialmente in quelle regioni ove vige la dura legge dei piani di rientro dal deficit della sanità. Basti pensare al Lazio, dove l’ex presidente Marrazzo è riuscito a far calare la saracinesca sul San Giacomo solamente dopo un lungo braccio di ferro e mille polemiche con politici, cittadini, pazienti, associazioni e comitati vari. Peggio è andata al di fuori del Gra, nelle province, dove la riforma/razionalizzazione del giornalista Rai non è riuscita a superare il primo scoglio, quello più duro della protesta, rappresentato da vari sindaci e cittadini, spesso pronti alle barricate pur di difendere i propri ospedali.
Più fortunata (o più determinata) è stata Renata Polverini che, dopo essere succeduta proprio a Marrazzo, ha pensato bene di proseguire l’opera del suo predecessore, chiudendo (o riconvertendo che dir si voglia) con determinazione ospedali nell’hinterland romano e nelle province. Peccato però che a questo punto sia scattato il secondo ostacolo, quello rappresentato dai ricorsi a Tar e Consiglio di Stato che a volte (ma non sempre) hanno dato ragione ai ricorrenti, sospendendo o annullando le chiusure decise, sempre nell’ottica di salvaguardare il diritto, sacro e inviolabile dei cittadini alla salute.
Da una parte dunque l’esigenza di cancellare strutture costose e poco utilizzate, dall’altra la necessità di garantire a tutti l’accesso alle migliori cure possibili. Difficile in questa Italia riuscire a trovare una sintesi che funzioni. Chissà però che i tecnici non riescano dove i politici hanno, spesso, fallito. Del resto non sarebbe la prima volta.

 

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