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Cosa spiega il caso Sallusti

di Fabio Germani

Il caso Sallusti è sintomatico di un’Italia pasticciona che confonde ciò che andava eventualmente fatto da ciò che è. Partiamo da un presupposto semplice: finire in carcere per un’opinione è sconcertante. È una cosa da regime dittatoriale. E l’assioma vale anche nel caso di un articolo feroce quale fu quello firmato da Dreyfus (alias Renato Farina, come lui stesso ha ammesso parlando alla Camera l’indomani della sentenza) nel 2007 su Libero.
La diffamazione a mezzo stampa è tale quando un giornale non si cura di determinate prerogative, vale a dire quando viene travalicato il diritto di critica. Nell’affaire Dreyfus, però, il nodo cruciale è l’omesso controllo dell’allora direttore di Libero, Alessandro Sallusti. Il che implica, di conseguenza, una corresponsabilità rispetto all’autore, reo di avere preso per buona una storia raccontata in modo fuorviante fin dal principio.
Al di là del merito della questione, molti esponenti politici (soprattutto tra quelli di centrodestra) hanno attaccato la magistratura dimenticando di avere più volte messo a repentaglio la libertà di opinione attraverso l’adozione – fortunatamente mai entrata in porto – di leggi che potessero inibire il pensiero di decine di blogger. Delle due l’una: o la libertà di opinione va sempre tutelata oppure non ci si può immolare solo quando ad essere colpito è un direttore responsabile “amico”. Noi vorremmo leggere Sallusti sempre, anche se non sempre siamo d’accordo con lui. D’altro canto, come sosteneva Lippmann, “quando tutti pensano allo stesso modo, nessuno pensa molto”, a patto però che non ci si dimentichi mai di separare i fatti dalle opinioni. Ed è proprio questo il compito che spetta alla stampa.

 

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