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Per la ricerca finiti i soldi. Italia arranca

di Carlo Buttaroni

Già nel 1945, Vannerer Bush, fondatore della National Science Foundation, aveva previsto che per molti decenni a venire la scienza avrebbe rappresentato la base dello sviluppo economico, e affermava anche che la vera sfida dei paesi avanzati fosse proprio la continua esplorazione di questa frontiera. E proprio l’Italia, paese che necessita di grande spinta innovatrice per recuperare, dopo la crisi, un ritardo preesistente a essa in termini di competitività e crescita, rappresenta la Cenerentola d’Europa e in generale dei Paesi sviluppati. L’Italia, infatti, investe in ricerca l’1,3% del Pil, molto meno di Francia e Spagna, Repubblica Ceca, Irlanda, Australia e Cina. La Germania e gli Stati Uniti spendono più del doppio; il Giappone, la Finlandia e la Svezia più del triplo. Se a questo sommiamo la nostra incapacità ad affrontare i cambiamenti indotti dalla crisi economica e la debole crescita, il risultato, sotto gli occhi di tutti, è che stiamo accumulando un ritardo via via crescente. Un quadro, quindi, in progressivo e costante peggioramento. È ovvio che non tutti i Paesi sono egualmente capaci di sfruttare la crisi in chiave di forte discontinuità, ma l’alternativa, per paesi come l’Italia, non può comunque essere quella di rimanere fermi o addirittura sacrificare ulteriormente i già ridotti investimenti nell’ambito della ricerca e sviluppo. Eppure i numeri dimostrano come, nel nostro caso, si stia procedendo proprio in questo senso. Nel 2011, gli investimenti sono crollati a -1,6% rispetto all’anno precedente, a causa dei tagli nel settore pubblico, delle università e delle imprese. La spesa media in ricerca e sviluppo – nel triennio 2009-2011 – è stata pari a 19,3 miliardi di euro, con oltre metà degli investimenti effettuati delle imprese (52,9% del totale nazionale), e la parte restante sostenuta dall’Università (30,3%), dalle istituzioni pubbliche (13,4%) e dal settore non profit (3,4%).
L’elemento più rilevante in questo desolante quadro è che, rispetto alla media europea e agli obiettivi di Lisbona (3% del Pil destinato alla ricerca), la quota di partecipazione agli sforzi è sbilanciata. Se gli indirizzi europei richiedono che i due terzi della spesa in ricerca deve arrivare dagli investimenti del settore privato e solo un terzo dal pubblico, in Italia si nota come il settore privato, invece, contribuisca molto poco. I motivi sono sostanzialmente due. Il primo è rappresentato dalla ragnatela di piccole e medie imprese che caratterizza il tessuto imprenditoriale italiano e che associa al concetto di ricerca quello di alto rischio e di non rientro dell’investimento. Il secondo motivo è che, con la privatizzazione del sistema delle imprese a partecipazione statale, la logica di mercato – fondata sul breve termine e sulla liquidità immediata – ha ridimensionato drasticamente gli investimenti in ricerca e sviluppo.
Un calo che ha portato, a cascata, una drastica diminuzione del personale impegnato, alimentando così la migrazione dei cervelli: oltre il 7% dei dottori di ricerca si è già trasferito all’estero. Non solo s’investe poco, ma soprattutto si investe male. Manca una strategia di sistema e obiettivi chiari. Forse occorre chiedersi che cosa significhi, oggi, “fare ricerca” nel nostro Paese. Perché se la ricerca ha, innanzitutto, l’obiettivo di costruire un patrimonio crescente di conoscenze da trasferire al sistema in modo da renderlo competitivo, questo non può avvenire senza un tessuto linfatico in grado di armonizzare e rendere efficiente il rapporto tra investimenti ed effetti delle attività stesse di ricerca. Non è automatico, infatti, che la ricerca generi innovazione e che quest’ultima, a sua volta, generi competitività. Tale risultato si può ottenere solo con una strategia complessiva, dove l’equazione del successo è data da ricerca, innovazione e competitività che crescono in equilibrio con i bisogni individuali e collettivi del Paese. È impensabile prescindere da una logica d’insieme. Il trasferimento delle conoscenze non può essere ricondotto semplicemente a un modello teorico sequenziale, che vede il primo passo nella ricerca di base, cui fanno seguito l’ingegnerizzazione e, infine, le applicazioni. II processo d’innovazione che oggi è richiesto è molto più articolato e richiede un costante dialogo fra il mondo della ricerca e le imprese, in primo luogo facilitando la nascita di programmi concertati con i futuri utilizzatori della ricerca stessa. Perché nel momento in cui la ricerca è fatta insieme a tutti gli attori, nasce “trasferita”. Vanno, quindi, risolti tutti quei difetti strutturali che caratterizzano la ricerca nel nostro Paese e ostacolano le opportunità di costruire un “sistema di ricerca e sviluppo”: frammentazione, dispersione, sproporzione e isolamento. Tutto ciò con una visione politico-strategica che ha come obiettivo i mercati e lo sviluppo del Paese. Un approccio che porterebbe a programmare l’attività per commesse strategiche, con una netta distinzione fra il ruolo di committente (la domanda del mercato) e quello di esecutore (l’offerta del mercato). Un metodo, questo, che consentirebbe di facilitare la definizione e lo svolgimento di collaborazioni con terzi su scala nazionale ed europea, in un quadro programmatico definito di responsabilità specifiche e risultati attesi. Il sistema deve essere ovviamente tarato sulle esigenze delle aziende e dei settori: non ha senso, infatti, prevedere che tutte le piccole imprese debbano impegnarsi direttamente nella ricerca. Se è vero che l’innovazione non è solo tecnologica, ma anche organizzativa, di mercato, di comunicazione, finanziaria e così via, è parimenti vero che le tecnologie favoriscono anche questi settori.
La questione è, quindi, legata anche al tema di come rendere disponibili alle imprese i ritrovati, le conoscenze, i processi che esse non conoscono o rispetto ai quali hanno difficoltà di accesso. Se si creano le condizioni per uno sviluppo competitivo reale, ecco che, tramite iniezioni di tecnologia, si valorizzano tutti quei settori produttivi in cui il marchio made in Italy è sinonimo di tradizione, unita a qualità e originalità. Una tradizione importante come quella rappresentata dai distretti industriali di un tempo, che oggi va ripresa e trasformata in una dimensione di distretti tecnologici. Ciò significa non solo nuova tecnologia, ma il superamento della distinzione fra “settori tradizionali” e “settori innovativi”. Non è ragionevole immaginare un’Italia che fa soltanto hi-tech, né un’Italia che non lo faccia per niente. L’obiettivo deve essere un Paese che investe con il duplice scopo di presidiare i settori tradizionali e di generare conoscenze che mantengano competitivi i settori più avanzati del nostro sistema produttivo.
Fare sistema significa puntare sulla costruzione di una rete tra settori produttivi e competenze scientifiche, in grado di rendere l’Italia competitiva in sede internazionale e all’interno dello spazio comune europeo della ricerca. È proprio dalle nostre eccellenze che può scaturire, a determinate condizioni, quella spinta propulsiva che oggi manca e che ci sta allontanando sempre più dalle economie avanzate. Il tema della ricerca è centrale, incrocia il futuro e ha bisogno, per dare i suoi frutti, di tempi più lunghi di una legislatura o della durata di un governo.

Questo articolo è stato pubblicato sull’Unità del 5 novembre. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf.

 

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