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Medio Oriente, una guerra di percezioni

Intervista a Gianluca Pastori, ricercatore in Storia delle relazioni internazionali all'Università Cattolica di Milano e socio di SeSaMO (Società per gli studi sul Medio Oriente)
di Fabio Germani

La tregua c’è, ma non si sente. È notizia di venerdì mattina l’uccisione di un palestinese sotto il fuoco israeliano nel sud della Striscia di Gaza. Si continua a sparare, in verità, dopo alcune ore di calma apparente. Nessun vinto, tutti vincitori. Come al solito. Da un lato Hamas proclama la giornata nazionale di vittoria e dall’altra il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, afferma convintamente che gli obiettivi sono stati raggiunti. In molte parti del mondo, anche in Italia, vige una “strana tendenza” a schierarsi per gli uni o per gli altri. “Le ragioni del conflitto israelo-palestinese – spiega a T-Mag Gianluca Pastori, ricercatore in Storia delle relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano e socio di SeSaMO (Società per gli studi sul Medio Oriente) – sono molte e stratificate e non si prestano a una semplice individuazione di buoni e cattivi. L’attuale conflitto fra lo Stato ebraico e Hamas è solo l’ultima (provvisoria?) incarnazione di questa realtà. Paradossalmente, con il trascorrere del tempo, diventa sempre più difficile individuare le vere ragioni del conflitto e forse diventa sempre meno importante. Ciò che conta sono soprattutto le percezioni che le parti hanno dei torti subiti, reali o fittizi”. Hamas – che è ritenuta un’organizzazione terroristica, concetto ribadito negli ultimi giorni dal presidente statunitense, Barack Obama – controlla la Striscia di Gaza. Ma il rapporto conflittuale con Israele, mediaticamente parlando, può risultare fuorviante. “Questa peculiare forma di ‘distorsione percettiva’ – prosegue nel suo ragionamento Pastori – mostra anche l’enfasi attribuita alle relazioni, normalmente conflittuali, con Hamas e la sostanziale scomparsa di al-Fatah dalla luce dei riflettori. Limitare la questione ai rapporti fra Israele e Hamas e alle reciproche responsabilità rappresenta quindi, nel contesto attuale, una pericolosa semplificazione dei termini del problema. In questa prospettiva, al-Fatah potrebbe svolgere un ruolo potenzialmente importante. Sfortunatamente, i limiti della politica portata avanti dalla sua dirigenza, la graduale erosione del suo consenso che, oggi, ha il proprio bacino di fatto solo nella West Bank (i territori palestinesi della Cisgiordania, ndr) e le politiche di delegittimazione portate avanti dalle autorità israeliane nel corso della prima metà degli anni duemila, hanno eroso pesantemente i suoi margini d’azione, innescando un grave contrasto all’interno della stessa rappresentanza politica palestinese e contribuendo in larga misura al successo elettorale di Hamas a Gaza”.

Lo scacchiere mediorientale tanto è cambiato con l’avvento delle primavere arabe. L’Egitto di Morsi, seppur promotore della recente tregua, non ha negato una cesura rispetto alla politica conciliante dell’era Mubarak nei confronti di Tel Aviv. L’Iran, un giorno sì e l’altro pure, minaccia Israele così come un pericolo è la presenza di Hezbollah in Libano. Quella in Siria è una guerra civile senza fine contro il regime di Assad. Le primavere arabe rappresentano un fallimento o un’opportunità ancora in divenire?
“Il governo israeliano – risponde il professore – ha sinora dimostrato una significativa moderazione nei confronti dei risultati delle primavere arabe, in particolare nei confronti degli sviluppi che il processo ha avuto in Egitto. La questione dei rapporti con Hezbollah e con l’Iran è diversa, dominata com’è soprattutto da preoccupazioni di sicurezza ‘hard’. Abbastanza prevedibilmente, la recrudescenza del conflitto con Hamas sembra destinata a infiammare la retorica anti-israeliana di Nasrallah e di Ahmadinejad, soprattutto se si tiene conto del fatto che il 2013 è, in Iran, anno di elezioni presidenziali. Ovviamente, ciò non significa, a mio modo di vedere, il rischio di un’escalation militare, quanto meno ad alta intensità. L’intervento a Gaza, inoltre, sembra avere fatto passare in secondo piano il problema di una possibile azione contro le installazioni nucleari di Teheran (opzione, peraltro, assai controversa all’interno della stessa leadership israeliana). Quella siriana rimane una questione spinosa. Tuttavia, nemmeno in questo caso lo Stato di Israele sembra avere mai espresso la volontà di accelerare un processo di dismissione del regime di Bashar al-Assad i cui esiti appaiono ancora incerti. Per quanto riguarda un giudizio generale sulle prospettive delle primavere arabe, questo non può che essere, al momento attuale, interlocutorio. Il processo di transizione innescato si trova ancora, sotto molti aspetti, a uno stadio embrionale, nonostante lo svolgimento delle elezioni in molti Paesi. Si può però affermare – aggiunge – che tale processo sarà sicuramente caratterizzato da alti e bassi e che, nel suo sviluppo, potrà allontanarsi anche di molto dalle aspettative idilliache che soprattutto nell’opinione pubblica occidentale hanno accompagnato gli eventi nel corso della prima metà del 2011”.

E gli Stati Uniti? Che ruolo possono oggi interpretare dinanzi alla questione mediorientale? “Il fatto che gli Stati Uniti abbiano inizialmente cercato di intervenire nella crisi ‘per interposta persona’ mi sembra un segnale importante rispetto alla loro volontà di tenere un basso profilo nella vicenda e di accreditare le nuove leadership arabe, soprattutto quella egiziana, come interlocutori credibili. Il fatto che Obama non si sia ancora ufficialmente insediato per il secondo mandato può, in parte, giustificare questa scelta. Tuttavia, il fatto che, a crisi in corso e con il rischio di una possibile escalation, il presidente abbia deciso di proseguire con i suoi impegni istituzionali in Asia sembra dire qualcosa riguardo a una revisione ‘strutturale’ degli interessi Usa nella regione. Ovviamente, il governo israeliano continua a considerare prioritario il coinvolgimento di Washington nella soluzione della crisi e, più radicalmente, nella garanzia della propria sicurezza. Resta da vedere se e quanto questa priorità sia compatibile da una parte con le scelte globali degli Stati Uniti, dall’altra con le scelte ‘tattiche’ dell’amministrazione di ridurre il proprio grado di esposizione militare a favore di soluzioni di carattere più politico”.

Immaginare una pace tra israeliani e palestinesi, però, è di per sé una chimera. “Esistono – osserva Pastori – numerosi esempi di processi di ‘riconciliazione nazionale’, dall’Ulster, al Sudafrica, a varie altre realtà africane. Si tratta, in ogni caso, di processi di lungo periodo che necessitano, per il loro sostegno, di una forte volontà politica, di ampie disponibilità economiche e, in molti casi, della presenza di ‘potenze garanti’ sufficientemente credibili e al contempo accettate dalle parti. Questi elementi rendono difficile la trasferibilità di esperienze esterne al contesto israelo-palestinese. Come accennato, sotto il conflitto esistono pesanti sedimentazioni e soprattutto una memoria ingombrante di torti, reali o presunti. La visione israeliana del problema essenzialmente in termini di sicurezza militare, accoppiata alle strategie di lotta adottate da Hamas e dalle altre fazioni della resistenza palestiense, complica ulteriormente i termini dell’equazione. Allo stato attuale delle cose, mi sembra quindi difficile ipotizzare l’avvio di un processo negoziale senza la presenza di una massiccia pressione esterna. Di contro, appare difficile individuare un soggetto capace di esercitare questo tipo di pressione, tenuto conto di quanto osservato riguardo alla posizione statunitense, della sostanziale assenza di una posizione dell’Unione europea, dimostrata anche in occasione dell’attuale crisi, dell’irrilevanza in cui sembrano essere ricadute le Nazioni unite”.

 

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