Beppe Grillo e il “voto sconquasso” | T-Mag | il magazine di Tecnè

Beppe Grillo e il “voto sconquasso”

di Antonio Caputo

Meno di un anno fa, a commento dell’esito delle amministrative (affermazione del Movimento 5 Stelle, e crollo dei partiti tradizionali, soprattutto di centrodestra), parlammo di “tsunami elettorale”: cosa dovremmo dire ora, che quell’8%, è triplicato al 25, rendendo quello di Grillo il primo partito? Per adoperare un’altra metafora, si potrebbe dire che due bombe atomiche sono esplose contemporaneamente sul voto: una, appunto, è stata la valanga 5 Stelle, al di là di ogni previsione; l’altra, l’ennesima rimonta-resurrezione di Berlusconi.
A Natale (due mesi fa) i sondaggi davano il centrosinistra al 41-42% (Pd oltre il 35); ed il centrodestra al 20% (Pdl al 13): insomma, oltre 20 punti di distacco, e come, anzi, più che nel 2006, tale vantaggio è evaporato.
L’esito del voto è stato un sostanziale pareggio tra le coalizioni: il Senato sarà ingovernabile, con un numero di seggi pressoché paritetico tra Bersani e Berlusconi (115-120, lontanissimi dai 158, maggioranza minima, irraggiungibile anche con l’apporto montiano), ed un potere d’interdizione enorme per Grillo, (quasi 60 senatori); con Monti che sperava di fare da ago della bilancia, e che vede, invece, dissolversi tale prospettiva. Alla Camera, il centrosinistra gode di 120.000 voti di vantaggio (0.4%), il che permette a Bersani di intascare il premio, ma con un risultato che lo stesso segretario Pd non definisce vittoria (“non abbiamo vinto: siamo arrivati primi; vince chi è in grado di dare governabilità e noi non lo siamo”). E’ dunque, una vittoria giuridicamente, ma non certo politicamente: coalizione al 29.5%, scarto minimo sul centrodestra, e senza neppure riuscire, il Pd, a diventare primo partito; un dato assai deludente, al di sotto addirittura del minimo storico, il 26% delle europee 2009; una vittoria come nel 2006, sudando le classiche sette camicie, e con nella mente dei militanti il grido di Nanni Moretti: “Con questi dirigenti, non vinceremo mai!”. Infatti, per l’ennesima volta l’urlo di vittoria del popolo di sinistra, resta strozzato in gola. Con Renzi leader sarebbe andata diversamente? Il sindaco di Firenze avrebbe, forse, sfondato a destra, impedendo la ripresa di Berlusconi e riassorbito in parte il voto di protesta finito a Grillo, portando il Pd a stravincere.
Al centrosinistra spetta l’onere della prima proposta e va assolutamente evitato l’errore del 2006: all’epoca, con 25000 voti di vantaggio, si impose, (ad un Berlusconi che non accettò il risultato) prendendo tutte le cariche istituzionali, e gettando via le offerte dell’opposizione di un governo di unità nazionale, guidato (ebbene sì) da Mario Monti. Si preferì l’alleanza con Bertinotti e si sa come finì. Il dialogo centrosinistra – centrodestra è obbligato, ma senza inciuci, altrimenti, nel (breve) tempo che ci separa dal nuovo voto, Grillo sfonderà il 40%.
Da un lato Berlusconi deve riconoscere l’esito delle urne; dall’altra Bersani deve evitare di escludere il quasi 30% di italiani che ha votato il Cav da ogni prospettiva governativa ed istituzionale. Fallito il laboratorio Bersani-Monti, le alternative restano: il governissimo, un tentativo di approccio con Grillo (la strada che, sembra, Bersani intenda percorrere), le elezioni anticipate (ma Napolitano non può sciogliere le Camere, essendo nel semestre bianco: solo il nuovo Capo dello Stato potrà farlo). Arroccarsi nella autosufficienza, tentare “scouting” nei gruppi parlamentari di minoranza, imporre a maggioranza le cariche istituzionali, o cercare scorciatoie giudiziarie è quanto il Pd non deve fare: il Paese è spaccato, e se mal tollerò alcuni di questi atteggiamenti in Prodi, che aveva dalla sua il voto di metà elettorato, non lo tollererebbe minimamente oggi, quando il vincitore ottiene meno di un terzo dei voti.

E siamo all’analisi del voto.
Il centrosinistra prevale, battendo in ritirata: minimo storico in percentuali e voti, e senza poter dare la colpa ad Ingroia, la cui lista si ferma ad un bassissimo 2%, facendo incredibilmente peggio del disastroso 3% di Bertinotti cinque anni fa. Il richiamo al voto utile ha ancora una volta funzionato, ma ad un prezzo spaventoso: nel 2008, le forze di sinistra extra coalizione (Arcobaleno di Bertinotti, Socialisti, Sudtiroler Volkspartei, liste ultra comuniste) presero un magrissimo 6%; oggi, Ingroia e le altre liste si fermano al 2 e mezzo. La coalizione del Pd fece il 37.6, ed oggi perde altri 8 punti, il tutto con un netto calo di votanti. Andando a ritroso: la vittoria del 2006, che diede a Prodi il voto di metà degli italiani (19 milioni di voti), fu unanimemente giudicata deludente, date le prospettive di partenza; il 2008 fu, per il centrosinistra, una caporetto (totale: i già deludenti 19 milioni di Prodi scesero, sommando a Veltroni le forze di cui sopra, a 16); ora, tra Bersani, Ingroia e gli altri, si arriva ad 11 milioni appena.
La sinistra radicale, sommando Sel e Rivoluzione Civile, vale poco più del 5%, rivelandosi una “tigre di carta”. Il mezzo flop di Vendola, bastonato nella sua Puglia, è una sorpresa a metà: Sel ha sempre viaggiato, virtualmente, tra il 5 e l’8%, ma nelle urne (amministrative, regionali, europee), la lista si è sempre attestata attorno al 3%, esattamente come ora. Rivoluzione Civile: una campagna basata sul giustizialismo non ha pagato; Ingroia è parso la brutta copia di Grillo, e gli elettori hanno preferito l’originale. Questo ulteriore tracollo lascia fuori dal Parlamento Rifondazione e Verdi, già esclusi nel 2008, estromettendo anche Di Pietro.
A destra, al di là della “grande” (Repubblica), o “clamorosa” (Corriere) rimonta del Cavaliere, cosa resta? Intanto, i 19 milioni di voti che nel 2006 prese anche la coalizione Berlusconi, si sono, anche in questo caso, ridotti a 11 (compresi Udc e Fli – all’epoca in squadra -, Giannino e qualche lista minore). Lo tsunami non ha risparmiato l’area berlusconiana, polverizzando gli alleati minori, e comprimendo anche la Lega, che ha dimezzato i voti, rendendo il dato del Nord meno a destra del solito: la rimonta è avvenuta soprattutto al Sud (con l’aggiudicazione, in parte a sorpresa, di Campania e Puglia, e, del tutto inaspettata, di Abruzzo e Calabria) e su questo si dovrà riflettere. Un partito come la Lega, appena al 4% (e primo responsabile delle sconfitte senatoriali in Piemonte e Friuli) ora avrà i tre governatori di Regioni che producono, da sole, metà del Pil nazionale.
Parlavamo in apertura di una rimonta maggiore che nel 2006 ed è così: allora c’erano 10 punti da recuperare ad ottobre e si azzerarono ad aprile; ora ce n’erano 20 a Natale, e si sono azzerati a fine febbraio; allora erano in squadra Fini e Casini, che sommati sfioravano il 20%, oggi il recupero del Cav è avvenuto senza di loro, che sommati fanno a mala pena il 2. Insomma Berlusconi, quando va male, pareggia, e quando vince lo fa con distacchi netti: l’unica vera sconfitta (il 1996) la rimediò quando la Lega andò da sola, e per il risultato magro nei collegi uninominali, dato che nel voto di lista la sua coalizione (senza Lega) ottenne più voti dell’Ulivo di Prodi (Rifondazione compresa).
Il centro ha fatto flop: Scelta Civica ha ottenuto un appena accettabile 8%, ma riunendo il premier, i voti di Cisl, Acli, Sant’Egidio (Bonanni e Riccardi erano tra i promotori), e Italia Futura di Montezemolo, oltre a Fini e Casini, si è arrivati ad un misero 10 e mezzo. Monti, insomma, non ha portato un gran valore aggiunto: con tutte le forze di cui sopra, solo 5 punti più dell’Udc nel 2008. Inutile girarci attorno: l’Italia moderata e conservatrice non si schioda da Berlusconi e dal suo schieramento; Monti, al di là del voto di opinione (sottratto in buona parte al Pdl, come testimonia il dato di Milano, città in cui più dell’effetto-Pisapia, hanno contato, a danno del centrodestra, Scelta Civica – al 14% – e Giannino – al 3 -), non ha sfondato. Ora il Paese si trova senza una guida stabile, e molte colpe le ha proprio il Professore: avesse rotto gli indugi a giugno, dichiarando “Mi candido con chi ci sta”, avrebbe, giocando d’anticipo, messo spalle al muro Pdl e Pd, che sarebbero stati costretti ad appoggiarlo, e non si sarebbe arrivati all’attuale stallo. Ma quando in estate il Pd aveva già innescato il meccanismo delle primarie, al premier sarebbe rimasto il solo ruolo di federatore dei moderati (Udc+Pdl), cosa che avrebbe fatto crollare, un minuto dopo, il governo, messo in minoranza dal Pd, che si sarebbe giustamente risentito. A quel punto, perso, per un tentennamento personale, il treno della candidatura bipartisan, il professore si è lanciato in un’avventura con molti generali e poche truppe; con un seguito fortissimo nelle redazioni dei grandi giornali e nei quartieri bene delle grandi città, ma con scarsa consistenza nel resto d’Italia. Fosse rimasto fuori dalla competizione, avrebbe potuto, col risultato registratosi, guidare l’inevitabile governo di unità nazionale, frutto dello stallo elettorale: ora non potrà più farlo, da Premier battuto ed arrivato solo quarto. Non basta: la sua lista ha drenato in massima parte voti agli alleati, travolgendo l’Udc e azzerando Fini, che (rinverdendo la “maledizione” dei presidenti della Camera) finisce fuori da Montecitorio come Bertinotti (anzi assai peggio), superato anche da Fratelli d’Italia e dalla Destra di Storace.
Il leader Udc paga i suoi tatticismi: non si può un giorno dire “Con Monti senza se e senza ma”; il giorno dopo “Patto con Bersani”; quello dopo ancora, “Uniamo i moderati”. “Con chi sta davvero Casini?”, si son chiesti i suoi elettori, non capendolo, e punendolo oltre le peggiori previsioni. D’altronde, il suo elettorato cattolico e moderato aveva già mal digerito alle regionali 2010 l’appoggio in Piemonte alla ex radicale Bresso, e in Sicilia il sostegno all’ex dilibertiano Crocetta (competizione in cui la “tenuta”, mascherava, in realtà, una forte donazione di sangue: il 12% del 2008 fu ottenuto con un’affluenza al 67%; il 10% del 2012, è stato ottenuto con un’affluenza al 47%; in pratica, un quasi dimezzamento di voti).
Fini non esiste più: nel 1996 ebbe il 15.6%, massimo storico, finora, per un terzo partito, per fermarsi ora sotto lo 0.5%. Troppe giravolte non comprese dall’elettorato e poche realizzazioni di cui si ricordi la sua paternità in quasi trent’anni di vita parlamentare (finiti bruscamente con queste elezioni), le cause della debacle. Oltre al cambiamento di alleanza (passare dalla destra, ad un centro che guarda a sinistra, dopo aver fatto cadere il governo di centrodestra), il cambiamento di idee su tutto (dall’immigrazione all’Europa, dai temi etici al giudizio sul fascismo, dalle riforme alla giustizia) gli ha fatto perdere ogni credibilità, relegandolo allo zero virgola. Chiudendo sul centro: l’Italia è bipolare, e non esistono granché spazi per terze forze: qualcuno, da Confindustria alle potenze straniere, dall’ala politica del Vaticano alla grande stampa, alle banche, se ne faccia una ragione (speranza vana: tra qualche anno toccherà a qualcun altro provare a rifare il centro: prenderà l’ennesima sberla, in attesa di ulteriori tentativi). A rompere il bipolarismo è stato Grillo, ma come voto di protesta, non certo come terza forza; un po’ come nella prima Repubblica: il bipolarismo era Dc – Pci; il terzo partito (Psi) non ha mai sfondato, perché gli italiani preferiscono, di fondo, una scelta semplice e chiara: di qua o di là. Chi venti anni fa ruppe il bipolarismo della prima Repubblica fu Bossi: anche allora un voto di protesta, e non certo una terza forza.

Grillo, dunque: il vero vincitore delle elezioni; una deflagrazione totale; nessuno aveva previsto l’entità di un tale sconquasso (“Uno scontento stellare” l’eloquente titolo di Avvenire): non solo primo partito, ma addirittura prima coalizione in molte regioni e province ed in alcune città (Palermo su tutte). Da dove sono arrivati quei voti? 5 Stelle ha pescato nello scontento generalizzato, tra i delusi, di ambedue gli schieramenti, tra i giovanissimi al primo voto (eloquente la differenza Camera/Senato), ma anche trasversalmente, da sinistra (dove sembrerebbe aver colpito di più, non a caso, vista la sua “agenda politica”), a destra (soprattutto al Nord, dove ha sottratto alla Lega il voto di protesta, contribuendo ad avvantaggiare Bersani, che proprio per questo si è aggiudicato Piemonte e Friuli, riducendo anche il distacco in Lombardia e Veneto). E’ stato un voto contro la “Casta” e le sue ruberie, contro “La Repubblica dei partiti”, che hanno occupato, dal livello nazionale a quello locale, ogni spazio di potere, tramite i Cda di aziende a partecipazione pubblica, divenute cinghie di trasmissione dei partiti, con la distribuzione di posti pubblici che alimentano il voto clientelare, ingigantendo la voragine di una spesa pubblica fuori controllo.
Le prospettive della legislatura si fanno complicate: prudenza vorrebbe un dialogo tra schieramenti, sull’elezione dei presidenti delle Camere, e, soprattutto, del nuovo Capo dello Stato; un “governo di scopo”, con un programma ovviamente limitato, che accompagni l’iter delle non più rinviabili riforme istituzionali (riduzione dei parlamentari, maggior peso all’esecutivo, snellimento delle procedure legislative, fine del bicameralismo perfetto, profonda rivisitazione della riforma del Titolo V che ha prodotto l’elefantiasi regionale), che ponga mano ad un’inevitabile manovra correttiva, ed, obbligatoriamente, che accompagni l’iter per una nuova legge elettorale, non essendo il Porcellum più sostenibile, per tre ragioni: 1) liste bloccate; 2) ingovernabilità al Senato; 3) premio di maggioranza alla Camera, con una forte disproporzionalità tra voti e seggi; disproporzionalità accettabile in una certa misura, ma senz’altro sbagliata se attribuisce, com’è appena avvenuto, con un terzo di punto percentuale di scarto, un divario di 220 seggi (ossia oltre un terzo di seggi di Montecitorio). Fatte queste improcrastinabili riforme, si dovrebbe tornare alle elezioni tra un anno, accorpandole alle europee ed amministrative in programma nel 2014.

 

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