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La violenza di una società depressa

di Carlo Buttaroni

crisi_personePer vent’anni la questione “sicurezza” ha dominato l’agenda politica, nonostante l’Italia sia tra i Paesi più sicuri al mondo e dove il rapporto tra forze dell’ordine e popolazione è tra i più elevati. Anche se è difficile dirlo per un tema che, inevitabilmente, può presentare soltanto una contabilità negativa, la sicurezza dei cittadini non è mai stata, nel nostro Paese, una vera emergenza. Sicuramente lo è stata in alcuni periodi della nostra storia, ma negli ultimi vent’anni la vera emergenza è rappresentata dalla criminalità organizzata che è arrivata a controllare politicamente, economicamente e militarmente intere aree del Paese, o dalla corruzione che corrode il sistema economico.
La sicurezza dei cittadini è stata al centro dell’agenda politica in modo del tutto strumentale, utilizzata come una leva del consenso, inducendo un bisogno di protezione rispetto alla paura di diventare vittime. Con la crisi il tema della sicurezza è scivolato in basso nella gerarchia dei problemi da risolvere, perché altri spettri, ben più consistenti, ne hanno occupato il posto. Ed è paradossale che questo avvenga nel momento in cui, invece, il tema della sicurezza sta assumendo la dimensione di vera emergenza sociale. Non tanto dal punto di vista della “frequenza dei crimini” ma dell’intensità della violenza che li accompagna.
Le cause della violenza sono fatte risalire, prevalentemente, alla “malattia mentale” o, altre volte, all’“ambiente sociale”. Ma né una, né l’altra sono sufficienti da sole a spiegare le ragioni di alcuni comportamenti. Perché anche gli atti più violenti, segnati da una natura apparentemente irrazionale, rappresentano il risultato mai scontato di un lungo e difficoltoso processo, dove ogni passaggio ha come protagonista un individuo, che non si limita a reagire a uno stimolo interno o esterno senza opporre alcuna resistenza, ma al contrario, interpone quella particolare “resistenza riflessiva” costituita dalla relazione con la realtà che lo circonda, dalla cultura dominante, dall’accettabilità sociale di alcuni comportamenti. È la “riflessività” che ci rende agenti attivi, ossia persone che hanno una certa padronanza nel determinare la propria vita, nell’autovalutarsi e nell’assumere responsabilità personali. Non esiste gesto violento o aggressione fisica che, per quanto cruento, non implichi una certa “cosmologia”. E comprendere da dove vengono certi comportamenti, significa accettare che i violenti non siano esclusivamente individui “disorganizzati”, i cui atti risultano rivelatori di patologie. I principali studi sul tema convergono nell’affermare che pur esistendo una moderata associazione tra violenza e disturbo mentale, essa non è “creata” dalla malattia ma in qualche modo è una caratteristica temperamentale o di personalità preesistente alla malattia stessa e, in tale condizione, non controllabile.
Le quote più significative della violenza osservata nelle persone mentalmente malate non riguardano i pazienti psicotici più di quanto riguardino portatori di disturbi di personalità, o affetti da patologia affettiva e, in tutti questi casi, a incidere pesantemente sul viraggio verso il comportamento violento sono fattori quali l’età, il genere, la scolarità, l’abuso di sostanze, le condizioni sociali. L’esecuzione di crimini efferati richiede sempre, in qualche misura, un’abilità nell’anticipare le mosse della potenziale vittima e interpretarne i gesti e non è, dunque, in gioco una grave anestesia emozionale o l’assoluta impossibilità a “sentire” come una persona normale.
Ma se vanno evitate le interpretazioni esclusivamente riduzioniste sul rapporto violenza-malattia mentale, occorre anche evitare di considerare l’ambiente sociale come unico colpevole dell’atto criminale violento. Non è, cioè, il condizionamento dall’esterno che causa direttamente l’agire violento, ma l’esito di un processo che vive delle negoziazioni con gli altri attori sociali all’interno di contesti strutturati, dove il sentirsi “parte di qualcosa” gioca un ruolo fondamentale. Quali tappe percorre allora quel processo dinamico attraverso il quale un individuo decide, “inaspettatamente” e “sorprendentemente”, di seguire linee d’azione violente? C’è una diffusa tendenza istituzionale, ma anche culturale e scientifica, a negare il carattere “comunicativo” della violenza e, quindi, la sua dimensione sociale.
Secondo alcuni studi è proprio il clima sociale, orientato a offrire una legittimazione all’omicidio, a rappresentare l’incubatore ambientale della violenza (basta ricordare che in Italia il delitto d’onore in caso di adulterio è stato a lungo giustificato e considerato un’attenuante). D’altronde l’atto violento è sempre un processo complesso e non è solo il mondo interiore, né il condizionamento dall’esterno che causa l’agire violento, ma il dialogo e la comunicazione fra questi due mondi. E nella pretesa dell’individuo di prendere la giustizia nelle proprie mani si può ravvisare il vulnus della violenza. Ovunque si è alimentato il credo del “doversela cavare da soli” si assiste a un’intensificazione degli episodi di violenza, che traggono origine dalla mancanza di gratificazioni e di credito sociale, prima sofferte dalle classi più esposte al disagio e ormai estesasi alle classi medie. Una situazione che si è aggravata con il progressivo allentamento delle reti familiari e lo smantellamento dei sistemi di protezione sociale che costituivano il vero argine contro il dilagare di comportamenti devianti e che è diventata più acuta con la crisi economica che ha creato una frattura sociale profonda.
Una società in cui è presente un alto tasso di comportamenti violenti esprime innanzitutto un correlativo forte bisogno di diritti, con un’inversione della normale e scontata relazione lineare tra paura del crimine e domanda di protezione da parte dei cittadini, suggerendo invece, l’idea che sia proprio l’affidarsi sempre più primariamente a questo tipo di protezione all’origine della paura del crimine e, in larga misura, alla diffusione dello stesso crimine nelle sue forme violente.
L’unica risposta a questa nuova forma di emergenza sociale è una cultura dei diritti, che non sia soltanto rivolta ad alimentare l’egoismo esasperato e che permetta a ciascuno di presentarsi, di sentirsi chiamare per nome, di guardare gli altri negli occhi e di sentire, in una forma elementare, di essere uguale di ciascuno.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 20 maggio. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf

 

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