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Il diario dal Festival di Cannes/6

di Giampiero Francesca

la_grande_bellezzaUn bel sole splende finalmente su la montee de marche, su quel red carpet che oggi vedrà sfilare il cast del nostro La grande bellezza. Sabrina Ferilli, Carlo Verdone e Tony Servillo accompagneranno Paolo Sorrentino in questa sua ennesima avventura al festival di Cannes. Prima di dedicarci però all’ultima fatica del regista napoletano, un altro grande autore ci attende. Un autore discontinuo e provocatore, capace di realizzare rivoluzionarie pellicole (come fu Sesso, bugie e videotape) o scialbe opere alimentari. Steven Soderbergh approda infatti a Cannes con Behind Candelabra, racconto eccentrico e kitch sulla vista del pianista e showman Liberace. Più di una semplice biografia, il film si concentra sulla lunga relazione dell’artista con il suo compagno, raccontando, senza mai scadere di tono, un amore profondo e vero. A dare i volti e le voci a questa coppia le interpretazioni magistrali di Micheal Douglas e Matt Damon, la cui straordinaria sintonia rende ancora più apprezzabile il lavoro di Soderbergh.
Manca ancora qualche ora al film di Sorrentino, così, scorrendo rapidamente il programma, scoviamo, in un day After screening, la proiezione di As I lay daying di James Franco. L’adattamento dell’opera di William Falkner risulta un interessante sperimentazione stilistica in cui le immagini prendono il sopravvento sulle parole. Immagini talmente ingombranti da non trovare sufficiente spazio sullo schermo, tanto da necessitare di un continuo uso dello split screen che moltiplica le superfici e gli sguardi. Un cinema, quello di Franco, ancora acerbo e ingenuo ma decisamente promettente.
Giusto il tempo di fermare qualche breve riflessione sulla pellicola appena vista prima di entrare in sala per gustarci La grande bellezza. L’opera di Sorrentino, come sempre complesse ed intrigante, pur prestando il fianco a qualche critica ha il merito indiscusso di riportate il cinema italiano ai resti che merita. Partiamo dai punti più deboli. La maestria tecnica dimostrata dal regista sin dalle sue prime opere sembra ormai sempre più un fardello. Imprigionato nella sua perfezione formale, nella sua calligrafia, nel manierismo simmetrico delle inquadrature Sorrentino rischia seriamente di scivolare verso un cinema di pura forma, freddo e inerte. Così come rischioso è il ricordo ad alcune figure retoriche, come il monologo fuori campo, tanto importante in film come Il divo quanto ingombranti se abusate. Liberato il campo però da questi vezzi, cui il regista cede forse più per autocompiacimento, La Grande bellezza rimane un film sublime. Sublime nell’interpretazione di un Tony Servillo magistrale, circondando da un gruppo di piccoli ma eccellenti attori comprimari, fra cui spicca una dolorosa Sabrina Ferilli. Sublime nel disegnare una Roma bellissima e magica, illuminata alla perfezione da Bigazzi, e quasi estasiante per la sua magnificenza. Sublime nel raccontare un edonismo, simile per certi versi a quello raccontato da Fitzgerald proprio nel Grande Gatsby, catarsi impossibile di un’epoca in decadenza. In un panorama umano di squallida perdizione la ricerca di una grande bellezza è impresa vana. Con un filo d’orgoglio possiamo afferma, usciti dalla sala, che l’opera di Sorrentino è, a tre giorni dalla fine del festival, la migliore passata nella selezione ufficiale, sia da un punto di vista estetico che per profondità di temi narrati. Mancano ancora i due favoriti dai bookmakers, Grigis di Mahamat-Saleh Haroun e La vénus à la fourrure di Roman Polanski, ma La grande bellezza si candida seriamente per una palma.

 

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