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Dalla ripresina possono uscire due Italie

di Carlo Buttaroni

dimensione_psicologica_crisiMentre la crisi politica è tornata ad avvitarsi su se stessa, sul fronte economico si è registrata una piccola schiarita, confermando le stime preliminari che avevano previsto un lieve miglioramento dal secondo trimestre di quest’anno. E’ troppo presto per dire che siamo fuori dal tunnel, perché sono migliorati soltanto alcuni indicatori e, nel complesso, il sistema economico del Paese continua a mostrare segni di grande difficoltà e ampie aree di disagio. Se non si può affermare che il peggio sia ormai alle spalle, è certo, invece, che bisognerebbe cogliere quest’opportunità senza incertezze, mettendo in campo politiche economiche che facciano leva proprio sul miglioramento di taluni parametri.
Ma per farlo occorre un sistema politico forte, in grado di sostenere un’azione di governo incisiva, soprattutto agendo sugli elementi di maggiore fragilità del nostro sistema economico. Debolezze che rischiano, in un quadro più generale, di vanificare, o perlomeno indebolire, i miglioramenti registrati in alcuni ambiti. Servirebbe, per esempio, una riqualificazione della spesa pubblica, in modo da liberare risorse per ridurre la pressione fiscale sulle aziende e incoraggiare le assunzioni attraverso una sostanziale riduzione degli oneri sul costo del lavoro. Occorrono politiche dei redditi per dare ristoro alle famiglie e investimenti che riducano le aree del disagio e siano da stimolo alla domanda aggregata su tutto il territorio. Senza questi interventi non ci sarà una ripresa dell’intero sistema ma una “ripresina” debole e circoscritta ad alcuni ambiti e che, se non governata, rischierà di accentuare le fratture e le disuguaglianze sociali dando forma a una divisione in due dell’Italia: una di seria A dove l’uscita dalla crisi avverrà più rapidamente, e una di serie B dove la ripresa tarderà ad arrivare, con effetti pesantissimi sulla tenuta dell’intero “sistema Paese”. Quanto sia alto questo rischio lo conferma il fatto che, nonostante il miglioramento di alcuni parametri macroeconomici, l’occupazione continua a calare e le previsioni stimano che l’onda d’urto della crisi continuerà a farsi sentire ancora a lungo frenando, inevitabilmente, la ripresa. Quello che dobbiamo attenderci, quindi, se non cambiano alcune dinamiche di fondo, è un miglioramento di alcuni indicatori economici (soprattutto in alcune aree geografiche come il nord e centronord) ma un peggioramento del tasso di occupazione (soprattutto nel mezzogiorno) o perlomeno una sua sostanziale stabilità sui livelli attuali. E’ del tutto evidente che, se non cresce la massa di occupati e non si ricostruisce un ceto medio corposo, il Paese troverà con sempre maggiore difficoltà le risorse per finanziarsi e fare quegli investimenti che servono a stimolare la ripresa. Oltretutto, le “due Italie”, avrebbero tra le proprie fila rispettivamente masse di occupati e di disoccupati, accentuando le differenze e le disuguaglianze sociali e territoriali.
Il problema “occupazione” rappresenta, quindi, quello che presenta i maggiori rischi, molto più del debito pubblico. D’altronde, un’economia che soffre di un’insufficiente domanda aggregata ha bisogno di misure politiche per aumentare l’occupazione e i redditi attraverso azioni coordinate in modo da trasformare la spirale negativa, nella quale la disoccupazione e la stagnazione del reddito riducono la domanda e scoraggiano gli investimenti, in un volano positivo che stimoli la crescita. Se è vero che le previsioni per tutta l’Europa lasciano pensare che la ripresa, nell’immediato, non si accompagnerà a una sostanziale diminuzione del tasso di disoccupazione, ciò non deve farci adagiare sul “anche negli altri paesi è così”, perché in Italia questa dinamica sta assumendo una dimensione endemica. Situazione per noi ulteriormente aggravata dal particolare tessuto imprenditoriale del nostro Paese, caratterizzato da un tessuto di imprese piccole e spesso piccolissime, che se in passato, in un quadro economico positivo, hanno dato eccellente prova di se, ora soffrono la durata della crisi e non hanno più mezzi per andare avanti. La scarsa capitalizzazione del sistema imprenditoriale italiano non consente, infatti, di sostenere a lungo gli shock economici, soprattutto quando questi sono accompagnati da poca (o nessuna) assistenza da parte del sistema creditizio. A pagarne il prezzo è principalmente il mondo del lavoro. Oltretutto, la dimensione medio-piccola delle imprese italiane, per diventare un driver dell’occupazione ha bisogno di un contesto favorevole dal punto di vista finanziario e giuridico. E nel nostro Paese sono venuti progressivamente a mancare sia l’uno che l’altro. Se i livelli di occupazione si sono mantenuti su livelli elevati, è grazie soprattutto alla nascita di nuove imprese del settore dei servizi, dimostrando che le variazioni positive più rilevanti dal punto di vista dei livelli occupazionali, si hanno non tanto aumentando la produzione ma aprendo nuovi spazi.
Il tema dell’occupazione soffre anche di un limite che si può definire di approccio. E’, infatti, interpretato quasi esclusivamente dal punto di vista dell’offerta in relazione alla necessità di mantenere la competitività nel contesto della ripresa. Ciò è certamente importante, ma i problemi che l’Italia si trova ad affrontare si trovano anche sul versante della domanda. Per questo è altrettanto importante allineare alla crescita dell’occupazione l’evoluzione dei salari alle variazioni della produttività. Se permettere ai salari di crescere più velocemente rispetto alla produttività genera il rischio di perdite di competitività e conseguenti aggiustamenti gravosi, allo stesso modo una politica di compressione dei salari finalizzata all’aumento della competitività implica dei costi in termini di livelli più bassi di domanda effettiva e una variazione negativa delle quote salariali, con costi sociali particolarmente elevati.
Porre al centro delle politiche economiche l’occupazione significa quindi incrociare anche il tema dei redditi, delle protezioni sociali e della riduzione delle disuguaglianze.
Per questo è possibile uscire realmente dalla crisi soltanto percorrendo un cammino di riforme, fondato sul riconoscimento del valore del lavoro, dell’impresa e del sistema del welfare nell’economia del sistema Paese. Bisogna, cioè, superare la logica quantitativa della produzione, usando criteri di valutazione innovativi: non investire per produrre di più, ma per produrre meglio, riducendo gli sprechi e aumentando l’efficienza con cui si usano le materie prime, a cominciare dall’energia. C’è bisogno di “piani casa” che puntino a recuperare gli edifici già costruiti, anziché a costruirne di nuovi; c’è bisogno di più infrastrutture sociali, più scuole, più trasporti pubblici; di alimentare un’economia di prossimità e di filiere corte.
Bisogna spostare il peso degli equilibri sociali dal mondo della produzione a quello del lavoro. Occorre assumere la salvaguardia e la qualificazione del sistema di Welfare come fattore di sviluppo e indicatore di qualità dello stesso, ridisegnando un ruolo attivo delle politiche pubbliche nel governo dell’economia. In buona sostanza, il nostro benessere e quello delle generazioni che verranno dipende dal modo nel quale riusciremo a uscire da questa crisi epocale. Non si tratta più solo di gestire bene il presente, ma di mettere in campo l’abilità di anticipare il futuro.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 12 agosto. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf

 

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