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Dal lavoro ai lavori, ovvero la crisi della certezza

IERI LA NOIA, OGGI LA FRENESIA
di Carlo Buttaroni

In questi anni si sta consumando il passaggio da un mondo del lavoro uniforme, com’è stato quello del secolo scorso, a una moltitudine di lavori spesso sfuggenti alla classificazione tradizionale. E’ calata la dimensione degli insediamenti produttivi ed è cresciuto parallelamente il numero dei luoghi dove si lavora; sono cresciuti i tipi di orario e sono calate le sincronie legate ai giorni e agli orari di attività.
Si è passati cioè dalla “società del lavoro” centrata su un profilo di pienezza e stabilità, alla “società dei lavori” non classificabili e instabili. Il cambio di scenario deriva soltanto in parte dall’aver messo apparati nuovi al posto di quelli vecchi. L’innovazione più significativa è l’integrazione orizzontale fra mercati, dimensioni e tecnologie che ribalta la logica delle economie di scala e dell’integrazione verticale. Tant’è che diminuisce la dimensione media dell’impresa per numero di addetti, aumenta la quota degli occupati nelle imprese minori sul totale e il sistema delle imprese si sta disponendo e articolando in orizzontale. A livello macro la lista delle professioni si è allungata e si è frazionata (sono nati più mestieri di quanti siano scomparsi) ma con prospettive di carriera più discontinue. Forse anche per questo non sembra esserci una netta ascesa della professionalità media quanto, piuttosto, una gamma più estesa di competenze, resa necessaria dall’intreccio fra domande vecchie e nuove.
In questo scenario quote consistenti di assunzioni passano attraverso le reti informali che rendono più forti quei sistemi di relazione che Mark Granovetter ha definito “legami deboli”, e più deboli quei sistemi che un tempo erano forti. Le novità più cospicue sono però altre, e vengono dai movimenti profondi che investono innanzitutto la natura della prestazione, cioè la qualità del lavoro. I contenuti si fanno meno manipolativi e più cognitivi, e le conoscenze polivalenti. Quella del lavoratore non è un’autonomia sospesa nel vuoto e neppure vincolata da rigidi sbarramenti, bensì condizionata da uno sterminato sistema di riferimenti e parametri. Altrettanto profondi sono le trasformazioni che riguardano i termini della prestazione, cioè i rapporti di lavoro, che tendono a essere meno subordinati e più autonomi, perfino nel lavoro dipendente. Diventano, inoltre, meno durevoli, data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo di quelli a tempo indeterminato. Infine meno uniformi poiché l’ambito dei contratti di lavoro si avvia a essere più circoscritto e assai più articolato.
Ne deriva un modo di lavorare che impone a tutti un ritmo teso e una tensione continua. Poco importa se si è dipendenti o indipendenti. E mentre nel secolo scorso i sociologi studiavano l’oppressione dovuta alla monotonia e alla ripetitività, così adesso devono cimentarsi con l’ansia generata da variabilità e incertezze. Ieri il sintomo era la noia, oggi la frenesia. Ieri il problema era la rigidità, oggi la flessibilità e la precarietà. Prima molti lavoratori soffrivano l’uniformità, il livellamento e la massificazione dei compiti, mentre oggi soffrono perché i loro compiti cambiano in fretta, evolvono in fretta e non hanno riferimenti precisi. Per questo, il nuovo contiene molti aspetti ambigui: basti pensare al fatto che la fatica viene abbattuta ma gli infortuni continuano. E sotto questo punto di vista nel post-fordismo c’è ancora molto fordismo: il nuovo non ha soppresso il vecchio, dal quale proviene. Nel complesso mentre la natura della prestazione tende a cambiare in meglio perché è soggetta a minori vincoli e consente maggiore discrezionalità, i termini della prestazione tendono a cambiare in peggio perché la tutela tradizionale non può coprire impieghi più instabili e tragitti più discontinui, indebolendo i profili di tutela e le solidarietà fra i lavoratori.
Il rischio più avvertito è la precarizzazione della vita perché il nuovo scenario intacca le certezze raggiunte nel recente passato. Le conseguenze sociali e psicologiche sono rilevanti nel momento in cui si lavora con meno vincoli e più opportunità, ma anche con minori tutele e pochissime garanzie.
Al restringersi della tradizionale area di tutela del lavoro industriale e fordista, corrispondono bisogni di tutela nuovi, tutti da delineare e da costruire, nell’area del lavoro discontinuo. Perfino in un rapporto di lavoro individualizzato, dove il lavoratore sembrerebbe potersi tutelare da sé grazie al proprio potere contrattuale si sente il bisogno di qualche forma di ausilio se non di tutela vera e propria.
Rispetto al passato, non si tratta soltanto di garantire meglio i diritti ma anche le “sorti” dei singoli, nelle concrete realtà dei mercati e dei luoghi di lavoro. Si rende, quindi, necessaria una nuova rete protettiva e universalistica che assista il lavoratore non solo nella costruzione dell’identità socio-professionale ma anche di una nuova traccia di cittadinanza.

 

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