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Un patto per riformare la politica

La crescita di "comunità parallele" richiede lo sviluppo di un pensiero nuovo e forte
di Carlo Buttaroni

parlamentoSe un giorno, improvvisamente, la politica non fosse più lì a sovraintendere ai nostri deboli istinti e alle nostre pulsioni, sarebbe la fine della società così come la conosciamo. L’individuo si troverebbe solo e indifeso, privato dell’unico strumento che gli permette di vivere insieme al suo prossimo, definendo fini comuni e stabilendo norme in grado di tutelare il bene comune e gli interessi individuali. E’ grazie alla politica che l’uomo ha potuto progressivamente trovare gli adattamenti alla sua natura sociale, rendendo possibile la nascita di ciò che è stato poi chiamato “nazione”, raggiungendo una stabilità “culturale” basata su una ragione forte e rendendo organizzato ciò che gli animali possiedono solo per istinto.
Ma oggi la politica è in grave sofferenza di fronte agli scenari frammentati sui quali è chiamata a dare risposte. E’ in difficoltà di fronte alla crescita di “comunità parallele” che non possono essere ricomprese in nessun insediamento preesistente. E’ quasi paralizzata di fronte a masse d’individui iscritti in una fluttuante geografia del consenso. Una politica, insomma, spaventata dalle scelte che è chiamata a compiere, ispirata a un pensiero debole dove il relativismo ha finito per essere una premessa largamente condivisa, dove tutto ha convissuto con il suo contrario e dove nessuno si sente veramente rappresentato da qualcuno. Un progressivo deterioramento che si riflette nella diffusa convinzione che la politica non sia più orientata, che abbia perso il senso di una missione da compiere, di un progetto da portare avanti, impossibilitata a organizzare il passato e il futuro in un’esperienza coerente. D’altronde il programmare, il progettare grandi mete, non si addice a un pensiero debole. E l’avvenire resta interrogativo senza tentativi di risposte per una politica timorosa di inoltrarsi in un futuro che non ha più la forma di una meta da raggiungere o di un criterio cui uniformare le condotte.
Al modello di ragione universale e forte del Novecento, in questi ultimi vent’anni, si è contrapposta una costellazione di razionalità parziali e provvisorie, che hanno alimentato l’idea che la politica sia solo “scelta elettorale” e non più rappresentanza di espressioni sociali. Il risultato è stato una deformazione della democrazia rappresentativa, i cui effetti si sono visti nelle elezioni politiche di febbraio: un sisma fuori scala, il cui epicentro non è stato nel sistema dei partiti, ma in una società caratterizzata da conflitti a bassa intensità e alta frequenza. Il fenomeno è molto più profondo di quanto è stato descritto nelle prime analisi post-voto. Lo si legge nel voto degli studenti e dei disoccupati. Lo si nota nella differenza dei gesti elettorali dei giovani e degli anziani e tra chi riesce a preservare un briciolo di garanzie (come i lavoratori dipendenti) e chi, invece, queste garanzie non le ha e, probabilmente, mai le avrà.
Eppure, pur nelle sue contraddizioni, nelle urne ha preso forma un’idea di società che si rafforza nelle sue vocazioni primarie: lo sviluppo di qualità, la sanità, l’assistenza ai più deboli, l’istruzione, l’attenzione al bene comune, la tensione a operare nella giustizia e a favore dell’interesse di tutti. Il dato delle urne dello scorso febbraio esprime il bisogno di un nuovo patto, una rifondazione che ispiri le scelte e le azioni pubbliche, la voglia di esserci in prima persona, di non essere più lontani ed estranei da ciò che accade. Una spinta a riemergere da quell’individualismo autoreferenziale che ha segnato questi anni, per guardare, con maggiore attenzione, ai legami e alle responsabilità di ciascuno verso i propri simili, considerati non più soltanto come limite, ma anche come condizione irrinunciabile della libertà individuale.
Il punto è come dare forma e coscienza di sé a una moltitudine d’individui che esprimono bisogni che non possono trovare soluzione soltanto in un uomo nuovo, ma hanno bisogno di un pensiero nuovo. E’ questa la grande sfida della politica. E non rispondere a questa domanda è il grande rischio della democrazia, perché senza una politica capace di un pensiero alto e forte, inevitabilmente annichilisce anche quel sistema di valori e principi che, a partire dalle singole individualità, trovano forma in un comune sentire e appartenere. E’ l’assenza di una politica capace di “pensare in grande” che ha alimentato l’illusione di poter “fare società”, senza obiettivi condivisi e senza un qualsiasi conferimento personale, restituendo una solitudine globale che ha reso ogni singolo individuo inerte di fronte al suo futuro.
La malattia da cui è affetta la politica nasce dall’impotenza di fronte alle scelte da compiere, una crisi dell’agire che si aggrava nel momento in cui sembra poter decidere solo in subordine al sistema economico prima e all’apparato tecnico poi. Una situazione di adattamento passivo, condizionata da decisioni contingenti che non può indirizzare, ma solo garantire. Un’impotenza che si accompagna a un nichilismo lieve, figlio della subordinazione delle idee a semplici ipotesi di lavoro che confondono il funzionamento con il pensiero, la direzione con la velocità.
Ciò che oggi serve è una politica che sappia farsi carico di quella volontà di rifondazione morale, civile ed economica che è stata depositata nelle urne.
Occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte a favore dei cittadini, visti non più come strumento per raggiungere le istituzioni, ma come fine ultimo di azioni ispirate al bene comune, punto d’incontro di un interesse convergente, fondato sul valore intrinseco e intangibile della persona umana e declinato su una solidarietà condivisa.
Per risolvere la sua crisi, la politica deve fare, quindi, i conti con se stessa e ripensare gli oggetti della sua azione. Perché in tutte le sue forme, ideali o teoretiche, fenomenologiche o empiriche, conserva sempre una confluenza con l’agire, con la capacità di fare delle scelte, di creare idee, di produrre azioni che governino la società e la sua complessità. Occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte, perché anche i tanti piccoli rivoli sociali che hanno preso la forma della grillo-ribellione ne sentono la mancanza. Questa è la sfida ultima cui oggi è chiamata la politica: sapersi ricostituire in agenzia di senso, capace di rappresentare le nuove e variegate figure sociali. Ma, per fare questo, più che un uomo forte occorre un pensiero forte, interprete all’altezza della società degli imperfettamente distinti.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità dell’11 novembre 2013. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf

 

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