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Quando l’eccellenza italiana va all’estero

Lo studio dell'Eurispes e di Uil Pubblica Amministrazione, "Outlet Italia"

lamborghini_esteroIl numero si aggira attorno ai 437 casi. Sono così tanti i passaggi di proprietà dall’Italia all’estero registrati dal 2008 al 2012, secondo le rilevazioni di Kpmg, mentre i gruppi stranieri hanno speso circa 55 miliardi di euro per ottenere i marchi italiani. E stiamo parlando, sia beninteso, di marchi d’eccellenza nati in Italia, quali Lambroghini e Algida. Oggi, però, di italiano hanno poco. Lo studio sul made in Italy che “emigra” dell’Eurispes e di Uil Pubblica Amministrazione, Outlet Italia, fotografa la tendenza di alcune aziende che hanno vissuto i loro momenti di gloria per poi ripiegare su capitali esteri pur di sopravvivere. “Molte delle nostre migliori realtà imprenditoriali, infatti – ha spiegato il presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara –, sono state schiacciate dalla congiuntura economica negativa, unita all’iperburocratizzazione della macchina amministrativa, ad una tassazione iniqua, alla mancanza di aiuti e di tutele e alla impossibilità di accesso al credito bancario. L’intreccio di tali fattori ha inciso sulla mortalità delle imprese creando una sorta di mercato ‘malato’ all’interno del quale la chiusura di realtà imprenditoriali importanti per tipologia di produzione e per know-how si è accompagnata spesso ad una svendita (pre o post chiusura) necessaria di fronte alla impossibilità di proseguire l’attività”.
La scrematura è avvenuta su 130 importanti marchi che negli ultimi 20 anni hanno registrato cambiamenti nella proprietà, ripartita in quattro grandi aree di riferimento: alimentare-bevande (43), automazione-meccanica (16), abbigliamento-moda (26) e arredo-casa (9). E ancora altre 36 aziende nei comparti della chimica, dell’edilizia, delle telecomunicazioni, del design, dell’energia e del gas.
Spesso l’ingresso di nuovi investitori è un fatto di per sé positivo, ma il circolo vizioso che si è instaurato nel nostro Paese (sottaciuto il più delle volte, peraltro) rende la situazione più complessa. “L’afflusso di capitali esteri nel nostro Paese” – osserva l’Eurispes a tale proposito – non sempre è “avvenuto secondo le normali regole di mercato e le aziende si sono dovute piegare ad una vendita ‘sottocosto’ rispetto al loro reale valore. E per quanto ci si sforzi di imputare al mercato globalizzato tutte le colpe di una simile situazione, è ormai chiaro che qualcosa non quadra e che i conti di certo non tornano. Come non torna l’assenza dello Stato e della politica e, insieme, di quella classe dirigente generale che non ha preso una posizione forte rispetto al progressivo sfaldamento della nostra economia preferendo un atteggiamento silenzioso, e per questo in qualche modo complice. Nonostante infatti si parli ormai da anni della vendita a prezzi stracciati del ‘prodotto Italia’, nessuno ha mai voluto veramente dire la verità e cioè che nulla è stato fatto per contrastare lo stato delle cose”.
C’è poi da osservare l’impatto che tale pratica ha avuto sull’occupazione. Quando un’azienda che produceva in Italia viene rilevata da investitori stranieri, può capitare che si decida di delocalizzare la produzione per “aggirare” norme particolarmente restrittive o per risparmiare sul costo del lavoro. Con tutte le conseguenze che possiamo immaginare: non solo la perdita di posti di lavoro (e talvolta di personale specializzato), ma anche l’inevitabile abbandono degli standard di qualità del prodotto.

 

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