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Il paradosso della cultura in Italia

di Fabio Germani

roma_cultura_artePer valutare l’affidabilità creditizia di un Paese non si può non tenere conto del patrimonio artistico. Parola della Corte dei Conti, che ha presentato all’agenzia Standard & Poor’s – notizia di queste ore anticipata dal Financial Times – una richiesta di risarcimento (pari a 234 miliardi di euro!) per avere declassato nel 2011 il rating dell’Italia quasi al livello spazzatura senza tenere conto – appunto – di tante altre variabili, quali il patrimonio culturale che comprende tanto la Cappella Sistina quanto opere cinematografiche, ad esempio La dolce vita. Pare che S&P abbia confermato tutto, così riportano i giornali, ma anche che abbia bollato l’azione giudiziaria in quattro e quattr’otto. “Non seria”, l’avrebbero definita negli Stati Uniti.
Sebbene la questione in sé c’entri poco, il pretesto è utile per analizzare lo stato dell’arte in Italia. Perché il nostro Paese resta certamente al primo posto nel mondo per patrimonio culturale, ma allo stesso tempo ha perso capacità di attrazione. Sono molti gli interrogativi quando Berlino può contare su un maggior numero di turisti all’anno rispetto a Roma o quando il Louvre, da solo, incassa più dei musei statali italiani messi insieme. Più in generale dovremmo anche ricordare che Francia e Spagna hanno superato l’Italia per capacità di attrazione turistica legata ai beni culturali. L’Eurispes ricorda quale sia il nostro paradosso: “Basterebbe un euro pubblico investito in cultura in Italia per generarne altri venti di Pil”. Il sostegno pubblico diretto ha subito infatti un calo drastico. Il bilancio del ministero dei Beni culturali negli ultimi anni è stato costantemente ridotto fino al minimo storico del 2011 di 1.425 milioni di euro, appena lo 0,19% della spesa complessiva. Una contrazione, detta in altri termini, pari al 36,4% in dieci anni. Anche sul fronte occupazionale è evidente il gap con i partner europei, specie Germania e Regno Unito che registrano performance decisamente migliori. Ma in generale sostenere che con la cultura non si mangia è un errore bell’e buono. L’impatto sull’economia è notevole, come testimoniato dalla Fondazione Symbola e Unioncamere: “Il sistema produttivo culturale nella sola componente privata frutta al Paese il 5,4% della ricchezza prodotta, equivalente a quasi 75,5 miliardi di euro, e dà lavoro a quasi un milione e quattrocentomila persone, ovvero al 5,7% del totale degli occupati del Paese. Estendendo il calcolo dal sistema produttivo culturale privato anche a quello della pubblica amministrazione e del no-profit, il valore aggiunto della cultura arriva a 80,8 miliardi, pari al 5,8% dell’economia nazionale. Nel 2011 la quota era pari a 5,7%”.
Così il paradosso è doppio. Da un lato la cultura produce ricchezza e crescita, dall’altro è bistrattata al punto da farci perdere appeal. Queste ultime, poi, sono le considerazioni dell’Istituto Europa Asia (Iea) che in una classifica di 55 Paesi colloca l’Italia solo al 34esimo posto per attrattività, per storia, lingua e influenza. Nella classifica mondiale dei “brand paese” l’Italia occupa il 15esimo posto. In Europa meglio di noi vanno Svezia, Germania, Finlandia, Norvegia, Gran Bretagna, Danimarca e Francia.

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