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Meno istruzione meno Pil

di Carlo Buttaroni

scuolaIn Italia, negli ultimi cinquant’anni, la crescita dei livelli di scolarizzazione e l’andamento del Pil sono andati di pari passo. Negli anni Sessanta, i diplomati nelle scuole secondarie superiori sono cresciuti del 105% rispetto al decennio precedente, con un crescita del Pil del 56%. Negli anni Settanta, il numero di diplomati è cresciuto del 91% e il Pil del 45%. Tendenza positiva proseguita fino al 2000, anno in cui è iniziata un’inversione di tendenza che ha visto, nella decade 2000-2010, un calo del numero dei diplomati del 6% rispetto al decennio precedente e il Pil fermo sotto il 3%. Un caso? Non proprio. L’istruzione, nelle economie avanzate, è il più importante fattore di crescita. Proprio come per gli investimenti in “capitale fisico”, un Paese investe in istruzione e formazione per migliorare il proprio “capitale umano” sostenendo dei costi che in futuro si trasformano in maggiori guadagni. Se si analizza la capacità di creare valore aggiunto, cioè l’incremento di valore che si verifica nell’ambito dei processi produttivi a partire dalle risorse iniziali, ci si rende conto che l’elemento della “competenza” è fondamentale, perché si traduce in migliore qualità dei beni e servizi, insieme da performance produttive più alte.
I differenziali di conoscenza incidono sulla competitività più dei costi di produzione che, seppur rilevanti, hanno una valenza che si misura soprattutto nel breve termine, mentre il miglioramento degli standard produttivi, ottenuti attraverso l’aumento delle conoscenze e delle competenze, migliora la competitività nel lungo periodo.
Il livello di capitale umano, dunque, è un fattore decisivo per la crescita economica di qualunque Paese. Ed è anche un fattore attrattivo degli investimenti esteri, diventati, in questi ultimi anni, la principale leva di finanziamento dello sviluppo.
Agli inizi degli anni ’70, i paradigmi della finanza sono cambiati radicalmente con la scelta del governo Usa di sospendere la convertibilità in oro del dollaro. Una decisione che ha azzerato gli accordi di Bretton Woods del 1944 che limitavano la circolazione dei capitali. Da quel momento, enormi quantità di ricchezza sono uscite dai radar dei governi nazionali e hanno iniziato a muoversi a livello globale. Oggi, per esempio, le grandi centrali finanziarie mondiali possono scegliere se sostenere il debito pubblico di un Paese e questa decisione, al netto delle speculazioni, dipende dalla capacità di trasformare il debito in crescita. Una scelta che avviene tenendo in considerazione, come variabile fondamentale, il potenziale produttivo di un Paese e la sua capacità di generare valore aggiunto. I grandi fondi di private equity mondiali, che raccolgono risorse in tutto il mondo e hanno portafogli d’investimento di centinaia di miliardi di dollari, finanziano imprese che operano nel campo della meccanica di precisione, del chimico, del farmaceutico, dell’high-tech, in base a parametri dove il “capitale umano” non conta meno del costo del lavoro.
Un elevato livello di capitale umano, alimentato da una costante crescita delle conoscenze e delle competenze, rappresenta, infatti, il presupposto di miglioramenti continui degli standard produttivi e nella capacità di creare valore. Oltretutto, attraverso il movimento internazionale dei capitali, è possibile incrementare il trasferimento di nuove conoscenze e tecnologie ottenendo un progressivo avanzamento della frontiera della produzione. Investire in conoscenza, quindi, conviene all’intera economia di una nazione. A livello globale, gli investimenti in conoscenza vedono in prima fila le economie emergenti, che stanno scalando le classifiche mondiali non solo in termini di Pil ma anche di livelli d’istruzione e qualità delle università.
L’Italia, invece, sta perdendo questa sfida sul futuro, non solo a livello mondiale ma anche all’interno dell’Europa. I dati sul livello del capitale umano delle persone occupate nel nostro Paese – misurato ad esempio attraverso il livello d’istruzione degli occupati – non sono confortanti, soprattutto se confrontati con quelli della media europea. E ancor più sconfortanti sono quegli indicatori che la Ue utilizza come obiettivo strategico per il 2020.
Nell’Europa dei 27 l’Italia è terza per quanto riguarda la quota dei NEET, i giovani che non lavorano, non studiano e non sono impegnati in percorsi formativi. Un primato negativo che ci vede preceduti solo da Grecia e Bulgaria. Un paese, il nostro, a fondo scala per quanto riguarda la classifica sull’istruzione universitaria, nel gruppo di testa per l’abbandono scolastico e al 16° posto in merito alle competenze matematiche dei nostri studenti. La Strategia di Lisbona aveva posto, tra i cinque obiettivi da raggiungere entro il 2010, la riduzione al 10 per cento della quota di giovani che lasciano la scuola senza un adeguato titolo di studio, e il piano “Europa 2020” ha posto il tetto di almeno il 40 per cento di giovani che ottiene un titolo di studio universitario. L’Italia ha fallito il primo obiettivo ed è assai lontana dal raggiungere il secondo. Una condizione che non stupisce, perché l’Italia è nella parte bassa della classifica anche per quanto riguarda la spesa pubblica per l’istruzione e la formazione, ben al di sotto la media europea. E gli esempi non mancano: la Danimarca, per citarne uno, investe una quota pari al 7,8% del PIL, contro il 4,2% dell’Italia. Un’impostazione, la nostra, che nel medio/lungo periodo porterà a un minore tasso di sviluppo dell’Italia anche rispetto ai propri partner europei, con un conseguente deterioramento dei processi produttivi.
L’Italia, quindi, se non cambia strada, si andrà ad attestare su livelli di competitività più arretrati rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea, con conseguenze inevitabilmente negative sui tassi di crescita economici. Nelson Mandela ricordava spesso che “L’istruzione e la formazione sono le armi più potenti che si possono utilizzare per cambiare il mondo” e, sicuramente, sono l’unico strumento per non scivolare verso un futuro assai meno glorioso del nostro passato. Senza istruzione manca la conoscenza di base necessaria per il progresso tecnico e scientifico, ma anche per quello umano, senza il quale ogni forma di progresso rischia di rimanere sterile e priva di frutti.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 17 marzo 2014. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf

 

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