Come accelerare la ripresa
Prima l’Ocse, ora la Bce: le prospettive di crescita sono migliorate rispetto ai mesi precedenti al punto che il 2015 viene da molti già definito l’anno della ripresa. I miglioramenti fin qui osservati, convergono gli istituti, dipendono soprattutto dal contesto internazionale, ovvero dai prezzi del petrolio più bassi e dalle misure, quali il quantitative easing, intraprese recentemente.
Situazioni, quest’ultime, che hanno contribuito alla crescita del clima di fiducia di imprese e famiglie. Ma è sull’impatto che le riforme strutturali avranno e sulla velocità per attuarle che si gioca la partita della ripresa.
Segnali incoraggianti arrivano anche dal mercato del lavoro, che “dovrebbero migliorare ulteriormente nel breve e medio periodo”. In pratica la situazione occupazionale “sta migliorando gradualmente”, anche se in alcuni paesi membri è più evidente che in altri. In Germania e in Austria il tasso di disoccupazione è molto basso, ma la crescita dell’occupazione è stata, in realtà, più marcata nei paesi che da tempo presentano dati allarmanti. In Spagna, ad esempio, il calo del tasso di disoccupazione, come osservato non molti giorni fa dall’Ocse, prosegue da 17 mesi consecutivi.
Ma per far ripartire la domanda interna, e in particolare la spesa per consumi, rilanciare il mercato del lavoro è sì condizione fondamentale, ma importante è anche aumentare i salari. Stando a recenti dati Eurostat, tra il 2010 e il 2013, nell’eurozona il reddito medio è cresciuto dell’1,5% (a 19.934 euro lordi l’anno), a valori che Italia e altri paesi non sono ancora riusciti a pareggiare rispetto a cinque anni fa.
Su questo fronte proprio l’Ocse si concentra in particolar modo. Negli anni compresi tra il 2010 e il 2014 l’aumento dei salari è avanzato a passo lento mentre cresceva la produttività. Lo scarto stimato è dell’1% quando il livello dei due indicatori, nel lungo periodo, dovrebbe essere analogo.
A proposito di riforme, e a proposito di sostegno alla domanda interna, è opportuno rilanciare gli investimenti pubblici e privati (in questo senso si muove il piano Jucker). In Europa sono calati negli anni della crisi, molto in Italia. Secondo una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, rispetto al 2009, l’Italia ha adottato un taglio pari al 30% sulla spesa pubblica per investimenti, che nel frattempo è passata da 54,2 miliardi di euro a 38,3 miliardi (2013).
Un andamento che riguarda altri paesi quali Spagna (-3,0% in rapporto al Pil), Grecia, Cipro, Irlanda e Portogallo. L’Italia, nello specifico, ha ridotto nel lasso di tempo considerato gli investimenti pubblici, ma incrementato altri capitoli di spesa.
(articolo pubblicato il 19 marzo 2015 su Tgcom24)