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Il dibattito sulla legge elettorale

di Antonio Caputo

Con la mutata situazione politica e la rimodulazione del sistema partitico a seguito della formazione del governo Monti, si ripropone il tema della legge elettorale, chiaro indizio dell’avvicinarsi della fine della legislatura.
Lo spunto lo ha dato l’ex segretario Pd, Dario Franceschini, il quale ha lanciato la proposta di un ritorno al proporzionale, più adeguato al mutato clima politico, perché, prosegue il predecessore di Bersani, è (il proporzionale) un sistema che non costringe i partiti ad allearsi prima delle elezioni, lasciando loro, al contrario, maggior libertà di manovra.
Io stesso ebbi a scrivere su queste colonne della necessità di un ritorno al proporzionale, che, ritengo, meglio si attaglia alla complessa realtà politica e sociale italiana: le argomentazioni di Franceschini non possono che trovarmi, dunque, pienamente d’accordo.
L’aver smosso, da parte del capogruppo Pd, le acque, ha cominciato a produrre i suoi effetti: gongola Casini, da sempre fautore del proporzionale, il quale, se riuscisse a segnare anche il goal della riforma elettorale (dopo quello del governo di responsabilità nazionale, suo cavallo di battaglia da due anni) si porrebbe come l’assoluto trionfatore della fase che sta portando alla fine della II Repubblica; ma, ed è una novità non da poco, segnali di apertura giungono persino dal Pdl (Frattini, Quagliariello, lo stesso Alfano). Si aggiunga come anche la Lega, vista la situazione, potrebbe avere interesse ad un sistema di voto per il quale ciascuno si tenga le “mani libere”, e si comprende perché, forse, questa potrebbe essere la volta buona per la riforma.
Tenendo conto che incombe il convitato di pietra del referendum elettorale su cui la Corte Costituzionale si pronuncerà tra qualche settimana, è normale che le dichiarazioni degli esponenti dei partiti siano un po’ come sassi gettati nello stagno, per “vedere l’effetto che fa”; pretattica, insomma, in attesa della pronuncia della Consulta.
Il referendum ha l’obiettivo di abrogare l’attuale sistema elettorale (Porcellum) per ripristinare il precedente meccanismo (Mattarellum). La legge Calderoli (Porcellum) attribuisce alla coalizione vincente un “premio” di maggioranza pari al 55% dei seggi a livello nazionale (Camera) o regionale (Senato) da ripartirsi proporzionalmente tra le liste della coalizione vincente (salvi gli sbarramenti); gli altri seggi vanno alle liste perdenti: un misto pertanto, tra proporzionale (di coalizione) e maggioritario (il premio). Il Mattarellum, invece, realizzava un mix maggioritario – proporzionale assai diverso: il 75% dei seggi era attribuito col maggioritario in collegi uninominali; il rimanente 25% col recupero proporzionale, nazionale con sbarramento al 4% (Camera) o regionale (Senato).
Ho già sostenuto, in un precedente intervento, l’inammissibilità dei quesiti referendari dal punto di vista costituzionale; così ritengono anche vari esponenti dei principali partiti dall’ex presidente della Camera, Violante, al capogruppo Pdl Cicchitto, ma non è questo il punto. Pur nelle differenze (rilevanti) esistenti, i due meccanismi (l’attuale ed il precedente) presentano delle caratteristiche (a mio giudizio negative) comuni, su tutti il forte impatto maggioritario (i collegi uninominali, nella vecchia legge, il premio, nell’attuale) che le informa.
Purtroppo, non è certo bastato darci regole elettorali maggioritarie per diventare un Paese di tipo anglosassone: in Gran Bretagna (o negli Usa), vi è innanzi tutto una legittimazione di fondo tra le forze politiche, per cui l’altro non è il “nemico” e, chiunque vinca, i perdenti si sentono in ogni caso garantiti da una tavola di valori di fondo condivisa che nessuno mette in discussione. Questa premessa è fondamentale per capire perché il maggioritario funzioni bene a quelle latitudini mentre, da noi, si traduce in uno scontro al calor bianco, da cui è difficile venirne fuori. Ovvio, se l’altro è il nemico, da sconfiggere a tutti i costi, pena la catastrofe nucleare, si mette insieme, pur di batterlo, tutto ed il contrario di tutto e si alimenta un tifo da stadio nell’elettorato, per cui il clima di scontro tra partiti non si limita ai talk show, ma pervade il Paese e si tramuta in odio, di (alcuni) simpatizzanti di una parte verso gli avversari (esponenti politici o elettori). In un clima così, il Paese ne risente, ed anche gli schieramenti arrivati al governo, dopo aver vinto la “guerra civile” devono, in qualche modo, mostrare alla propria tifoseria lo “scalpo” del nemico sconfitto.
Se la II Repubblica non ha risolto, nei suoi 18 anni, nessuno dei nodi strutturali del Paese lo si deve anche a questo clima che impedisce ogni visione di interesse generale privilegiando lo scontro, i cui risultati sono, evidentemente, macerie.

 

1 Commento per “Il dibattito sulla legge elettorale”

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