Un giornalismo figlio del nostro tempo
Chissà se avrebbe pensato a tanta longevità per la sua idea, Benjamin Henry Day, quando nel 1833, all’ombra della Grande Mela, dalle colonne del Sun lanciò un giornalismo lontano dalle disquisizioni su repubblicani e democratici predilette dai ceti medio-alti in favore di un’informazione dedita alla cronaca locale e rivolta alle classi popolari. Era la penny press, un modo di fare giornalismo che – grazie anche alle innovazioni di Hearst e Pulitzer – si è protratto fino ai giorni nostri mediante storie di ordinaria quotidianità all’insegna delle “tre s”: sangue, sesso e soldi.
In Italia questa formula, più comunemente conosciuta come “cronaca nera” ha trovato terreno fertile grazie soprattutto al ruolo preponderante della televisione, principale serbatoio di rifornimento del cittadino per le notizie, che con l’avvento dell’infotainment ha concesso sempre maggiore spazio a delitti domestici, “gialli” dell’estate e fatti di provincia.
Un cambiamento figlio anche, e soprattutto, del nostro tempo. Già in netto calo prima che le inchieste di Tangentopoli ne diagnosticasse il grave stato di salute, la credibilità della classe politica italiana rischia l’estinzione più dei panda del WWF dopo un ventennio di restaurazione piuttosto che di rinascita, trascorso secondo il più gattopardesco dei “tutto cambia affinché nulla cambi” invece che del gandhiano “dobbiamo essere il cambiamento che vogliamo vedere”. Il potere come fine per tutelare i propri interessi, i ripetuti scandali di corruzione nell’amministrazione della cosa pubblica, una società dai ritmi e dalla precarietà infernale, dove l’incertezza è il denominatore comune che investe l’universo professionale come, in taluni casi, i rapporti umani, hanno fatto sì che il cittadino sia attratto più da episodi attinenti al suo microcosmo (così incerto, ma così a lui vicino al punto quasi da ritrovarsi nella lite condominiale che sfocia in tragedia) che alle problematiche collettive (l’assessore comunale inquisito per tangenti), altrettanto instabili però percepite più lontane. A ciò deve abbinarsi l’anomalia di un’informazione italiana da diciassette anni vittima del conflitto di interessi: se un soggetto politico ricopre una posizione governativa e controlla quasi tutti i media, è quasi inevitabile – salvo le dovute eccezioni come quotidiani senza finanziamento pubblico – la veicolazione di notizie deputate a distrarre l’ascoltatore dall’effettivo andamento della situazione del Paese. E quale occasione migliore che irrompere nelle case di tutti gli italiani – dal luminare di cardiologia alle casalinghe sempre d’accordo di “fossatiana” memoria – con Novi Ligure, Avetrana, Erba e Roberta Ragusa in dosi spropositate riducendo così spazio e attenzione verso tematiche che invece meriterebbero i vertici dell’agenda-setting di giornata come – a esempio – un provvedimento che legalizza il falso in bilancio o un altro che mette in discussione i diritti dei lavoratori?
Tracotante ed endemico al punto da sfiorare l’insaziabilità, il sensazionalismo va oltre il tg e invade anche i programmi televisivi del pomeriggio: seguiti perlopiù da un pubblico di pensionati e casalinghe, sdoganano il cold-case di turno tramutandolo in melodramma a sfondo sentimentale attraverso le lacrime dello zio, lo sgomento dei vicini e l’incredulità degli amici della vittima.
E lode a te, dio audience…
Tommaso Nelli è nato a Pisa il 25 ottobre 1982 e nel 2010 si è laureato in Editoria e Giornalismo alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’università “La Sapienza” a Roma con una tesi sperimentale in giornalismo d’inchiesta sul caso di Emanuela Orlandi, dal titolo “Vittime di un gioco più grande – Emanuela Orlandi e Mirella Gregori: due misteri senza fine”. Oltre che essere ripreso in R. Notariale, Segreto Criminale, Newton&Compton, a questo lavoro è stato dedicato l’articolo “Un’indagine da 110”, a cura di Fabrizio Peronaci, uscito sul numero 31 di “Sette” del 4 agosto 2011. Fra le sue collaborazioni: Reset DOC e L’Infiltrato.
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