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Le violente proteste da Kiev a Bangkok

di Giampiero Francesca

ucraina_proteste_kievIl fuoco che divampa nelle strade di Kiev, le nuvole di fumo arancione che si stagliano nel cielo nero, il rumore degli scontri violenti. Ci sono volute le terribili immagini provenienti dall’Ucraina, uno spaventoso spettacolo, per riportare al centro dell’attenzione dell’agenda mediatica le drammatiche vicende dell’ex “granaio d’Europa”. Senza scene dal forte impatto emotivo è quasi impossibile, per i fatti di politica estera, trovare spazio nei nostri piccoli schermi. Nono sono infatti solo le strade di Kiev o Lviv ad essere invase da scontri e manifestanti. Dal Venezuela fino alla Thailandia, passando per la Bosnia-Erzegovina, i focolai di protesta sembrano caratterizzare il periodo storico che stiamo vivendo. Movimenti fra loro assolutamente diversi, accomunati sostanzialmente solo dalla contemporaneità temporale, ma che, proprio per questo, necessiterebbero di un maggiore approfondimento. Criminalità e corruzione, unite ad una grave crisi economica, sono state, ad esempio, il detonatore delle rivolte a Caracas. Iniziati a fine gennaio gli scontri fra i sostenitori del presidente Maduro e le opposizioni hanno raggiunto il loro apice negli scorsi giorni. Almeno due sono infatti le vittime rimaste sul campo dopo gli incidenti derivanti dalle due manifestazioni dell’11 e del 18 febbraio. I continui black out, l’aumento del costo della vita e un’inflazione galoppante, che ha toccato il 54%, hanno aumentato la tensione sociale provocando la reazione, anche violenta, delle opposizioni. maduro_venezuelaDi fronte ad una situazione economica al limite della sopportabilità il presidente Maduro aveva infatti approfittato dei suoi poteri speciali, che, grazie alla cosiddetta “legge abilitante”, gli consentono, da novembre 2013, di governare per decreto, per imporre delle risposte impopolari, come il controllo dei prezzi e le restrizioni sulla circolazione di valuta straniera. Vero simbolo delle scelte contrarie al sentire del popolo era stato l’aumento dei prezzi dei carburanti, tenuto da sempre fra i più bassi del mondo (in Venezuela il carburante costava meno dell’acqua in bottiglia) e ora notevolmente incrementato. Una politica questa, secondo le opposizioni, alla base della sempre maggiore penuria di beni di prima necessità. Olio, riso, caffè e zucchero scarseggiano fra i banchi dei supermercati mentre la mancanza ormai cronica di carta igienica è diventata un emblema della gravi crisi.

Ad accomunare la situazione venezuelana con quanto sta accadendo in Thailandia è dunque la dura contestazione al presidente in carica. Purtroppo anche gli scontri sviluppatosi lungo le strade di Bangkok sono costati la vita a quattro persone e hanno causato decine di feriti. Le proteste più dure si sono scatenate il 17 febbraio con migliaia di persone che hanno bloccato gli accessi alla Casa del Governo e occupato la sede del ministero dell’economia. Come ha dichiarato uno dei leader dell’opposizione, Suthep Thaugsuban, l’obiettivo dei manifestanti è il governo di Yingluck Shinawatra. Secondo i manifestanti l’attuale classe dirigente sarebbe in realtà controllata dal fratello del presidente, Thaksin Shinawatra, ex primo ministro, in esilio volontario dopo esser stato condannato, nel 2008, a due anni di carcere per appropriazione indebita. Quello che chiedono a gran voce i contestatori a Bangkok sono dunque le riforme, le stesse parole che riecheggiano anche lungo le strade di Sarajevo.

proteste_bosniaLe prime manifestazioni nella repubblica ex-jugoslava si erano sviluppate, a inizio febbraio, nel centro industriale di Tuzla, uno dei maggiori della Bosnia settentrionale, a causa del licenziamento di centinaia di dipendenti da parte di quattro grandi industrie (Konjuh, Polihem, Dita e Resod-Gumig). La privatizzazione degli impianti aveva infatti condotto al ridimensionamento delle aziende e alla successiva chiusura per bancarotta. Iniziata dunque come rivendicazione locale la protesta si era diffusa in tutti i maggiori centri del paese, da Bihac a Zenica fino a Mostar e Sarajevo. Un sentimento di contestazione tanto forte e ampio da condurre alle dimissioni di quattro dei dieci presidenti dei cantoni che formano la Bosnia-Erzegovina. A causare la rivolta erano state, ancora una volta, le ragioni economiche. Con un tasso di disoccupazione del 25,7% (il peggiore dei Balcani), che sale fino al 60% per quello giovanile, ed un quadro stagnante, la situazione della repubblica ex-jugoslava appare una delle più difficili della regione. L’assetto frammentario restituito dagli accordi di Dayton, che il 21 novembre 1995 ponevano fine alla guerra civile jugoslava, ha infatti finito con lo scoraggiare gli investimenti, bloccando la crescita del paese. Dal General Framework Agreement for Peace infatti nasceva uno stato fortemente decentrato, con due entità ben definite al suo interno (la Federazione Croato-Musulmana con il 51% del territorio nazionale e 92 municipalità e la Repubblica Serba con il 49% del territorio e 63 municipalità) ed un apparato amministrativo enorme, che oggi conta tre presidenti eletti a suffragio universale in rappresentanza delle tre etnie (bosgnacchi, serbi e croati). A ritardare l’inevitabile crisi economica erano stati gli iniziali, ingenti, investimenti post-bellici per la ricostruzione che avevano però presto cessato la loro forza propulsiva. Così la combinazione di un quadro economico stagnante e il ricorso a massicce privatizzazioni, spesso accompagnate da episodi di corruzione, aveva portato ai limiti la tensione sociale. Una tensione che, come visto, accomuna la Bosnia all’Ucraina con un salto, geograficamente, più breve.

yanukovich_ucrainaLe tragiche vicende dell’ex “granaio d’Europa” iniziarono il 21 novembre 2013 quando il governo Yanukovych bloccò i lavori per l’accordo di associazione con l’Unione Europea. In particolare le relazioni diplomatiche fra Bruxelles e Kiev si erano interrotte dopo le richieste europea di mettere in atto riforme in materia di diritti civili e trasparenza. Un pretesto perfetto per i contestatori che, all’indomani della decisione, scesero in piazza per manifestare contro il governo e contro lo stesso Yanukovych accusato di corruzione e di utilizzare metodi antidemocratici. Già nel 2004, dopo la prima vittoria del presidente, la “rivoluzione arancione” aveva dimostrato l’irregolarità delle elezioni e la presenza dei brogli portando alla sua sostituzione con Viktor Yushchenko. Anche le vicende di un’altra delle protagoniste della rivolta del 2004, Yulia Tymoshenko, condannata per abuso di potere nel 2011, avevano, secondo i manifestanti, messo in luce i metodi poco civili utilizzati da Yanukovych contro i suoi oppositori politici. Rispetto a nove anni fa però l’identikit di chi manifesta oggi a Kiev è molto più articolato e complesso. La “rivoluzione arancione” era, come tutte le rivoluzioni colorate dell’ex blocco sovietico, un movimento pacifico, liberale e filo-europeista, portato avanti dalla classe media e guidato da leader forti come Viktor Yushchenko e Yulia Tymoshenko. Oggi invece la protesta, anche molto violenta, ha come unico obiettivo il governo Yanukovych ed è formata, principalmente, da giovani e studenti, ai quali si sono aggiunti i movimenti nazionalisti di destra e ultra-destra. La composizione finale di chi, in questi giorni, mette a ferro e fuoco le città ucraine, varia così dall’ala libertaria e filo-europea allo Svoboda, partito anticomunista, razzista e antisemita. Un magma ancora difficile da decifrare che si muove sotto le immagini, emozionanti quanto terribili, che passano nei nostri media.

 

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