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Il Cavaliere e la drammaticità della crisi

di Antonio Caputo

La drammaticità della situazione venutasi a determinare negli ultimissimi giorni sui mercati impone decisioni immediate e non più rinviabili. Lo “spread” vola a livelli mai visti e dietro l’angolo si intravvede lo spettro greco. Inutile il teatrino degli avvilenti dibattiti tv in cui i rappresentanti politici cercano di attribuirsi l’un l’altro le colpe dell’attuale crisi: sembrano i capponi di Renzo che si beccano mentre stanno finendo tutti in pentola.
Le colpe principali, ovviamente, le ha chi sta da tre anni e mezzo, cui va aggiunto il quinquennio 2001/2006, al governo: Berlusconi con Tremonti e la Lega (ma per larga parte di questi nove degli ultimi 11 anni, anche Fini) che sull’orlo del baratro fino all’altro ieri hanno sottovalutato la drammaticità della situazione. Il premier, volto ad infondere ottimismo, non ha probabilmente compreso fino in fondo in che cul de sac si trova il Paese; la Lega che ancora fa muro sulle pensioni, non comprendendo che se (e può essere ormai questione di giorni) andiamo in bancarotta, altro che un posticipo di 2-3 anni dell’età pensionabile: nessuno vedrà più un centesimo di pensione!
Ma colpe gravissime le ha il ministro Tremonti, al quale (ed in ciò sta la responsabilità, pesantissima, del Cavaliere) non si potevano affidare per ben nove anni le sorti non solo del dicastero di Via XX Settembre, ma dell’intera economia nazionale. Poche settimane fa, non un pericoloso comunista, ma l’ex ministro Antonio Martino ha dichiarato: “Non servono manovre, ma riforme: le prime sono inutili perché tagliano un po’ a tutti; le seconde, che servirebbero, ma che nessuno ha il coraggio di fare, invece, tagliano laddove bisognerebbe farlo”. Martino, a suo tempo tessera n. 2 di Forza Italia, non ha mai avuto responsabilità economiche nei governi del Cav (Esteri nel 1994, Difesa nel 2001) affidate, invece, a Tremonti, che fa il bello ed il cattivo tempo, intento com’è a difendere soltanto l’equilibrio formale del bilancio, ma disastroso nell’affrontare i nodi strutturali del Paese.

Bloccato nella ridotta blindata di Palazzo Chigi, il premier non sa come uscire dalla situazione. Eppure, un modo ci sarebbe stato: un decreto che contenesse le misure necessarie, ovvero la cura da cavallo che servirebbe al Paese in materia fiscale, previdenziale, di semplificazione e sburocratizzazione, di liberalizzazioni, di dismissioni patrimoniali, di tagli ai mille rivoli della spesa. Certo, la sbrindellata e risicatissima maggioranza parlamentare che lo ricatta non glielo avrebbe permesso costringendolo alle dimissioni.
Attenzione, se sui mercati il Paese non è credibile, lo si deve però, non solo al governo e alla maggioranza, ma anche alla mancanza di un’alternativa: nelle cancellerie europee e da parte degli investitori (speculatori compresi) ci si interroga, fortemente dubitando, sul dopo Berlusconi e si vede che l’alternativa, un governo tecnico sostenuto dall’attuale opposizione (Pd + Idv + Terzo Polo) più qualche parlamentare dell’attuale maggioranza non avrebbe certo la forza e (quel che è peggio) neppure la volontà politica di affrontare di petto i nodi strutturali oggetto della lettera della Bce. Se un pezzo fondamentale della futuribile maggioranza a sostegno dell’esecutivo tecnico, come l’Idv (e anche mezzo Pd) considera quella lettera “macelleria sociale”, come potrà salvarsi il Paese una volta detronizzato il Cav? Chi taglierà il sovrappiù di insegnanti e dipendenti della scuola? Chi privatizzerà i servizi pubblici locali, quelle mini Iri regionali, provinciali, comunali che son diventare le società municipalizzate?

In conclusione, Berlusconi deve rendersi conto di essere, da un lato, parte del problema italiano (nessuno dei nodi strutturali del Paese, non creati certo da lui, è stato però da lui risolto nei suoi nove anni a Palazzo Chigi (peraltro non si capisce perché dovrebbe fare in due giorni ciò che non ha fatto in nove anni) e dall’altro un “dead man walking” che, può solo decidere come uscire di scena: se fa quanto detto su, cadrà certamente, ma lo farà da statista (anche perché il successivo governo tecnico riprenderà pari pari quelle misure, e con ogni probabilità riceverà il voto di buona parte del Pdl, del Terzo Polo, e almeno l’astensione del Pd; il “no” della Lega e di Di Pietro in tal caso sarebbe ininfluente), restituendo dignità e credibilità al Paese (sui mercati) ma anche alla politica (nei confronti dell’opinione pubblica, verso cui il discredito sta raggiungendo livelli mai visti), al centrodestra e a se stesso. Se non lo farà, lo sbriciolarsi della sua maggioranza con lo stillicidio di “deputatini” che escono uno ad uno lo obbligherà alle dimissioni in ogni caso, e la sua uscita di scena sarà da perdente.
Il bello è che al Cavaliere nella sua vita, il coraggio, da imprenditore prima e da politico poi, non è mancato: lo dimostri anche in quest’occasione e cadrà in piedi. L’impopolarità passerà, com’è passata per Prodi che affrontò a viso aperto, nell’ultimo, drammatico dibattito in Senato, del 24 gennaio 2008, l’implosione della sua maggioranza; cadde, e per un po’ venne trattato da tutti (compreso il suo partito) come un appestato, ma oggi viene rivalutato e, secondo i rumors di palazzo, potrebbe approdare addirittura al Quirinale. Se non lo farà, e continuerà con quest’agonia indecorosa, camperà massimo un’altra settimana per morire poi d’inedia.

 

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