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Il nuovo governo. Mario Monti alle prese con i partiti

di Antonio Caputo

Se dopo l’euforia iniziale, a seguito dell’inequivocabile manifestazione di volontà del Quirinale di affidargli l’incarico di governo, lo spread è tornato sopra quota 500 e la Borsa continua a scendere, significa che i mercati hanno constatato come, arrivato con Monti un forte segno di cambiamento, non è, purtroppo, cambiato il sistema dei partiti, né i freni costituiti dal loro modo di portarsi, il che renderà difficile il percorso all’ex commissario Ue.
Il fatto positivo è che Monti è abituato a combattere con colossi del calibro di Microsoft; c’è pertanto da credere che non si farà intimorire facilmente dal ginepraio di veti e dai bastoni tra le ruote che le forze politiche gli frapporranno.
Vediamo come si posiziona (grosso modo) lo scacchiere politico iniziando dalle posizioni più chiare: la Lega, che ritrovando un’unità interna, si è espressa per il no al nuovo esecutivo (riservandosi però di valutare i singoli provvedimenti) ed il Terzo Polo, lo schieramento più favorevole al governo del professore di Varese, cui ha concesso carta bianca. Era d’altronde lo scenario cui lavorava da sempre, soprattutto l’UdC di Casini (vero vincitore della partita) quello di un governo di responsabilità che affrontasse i temi urgenti della crisi e servisse a una decantazione del clima di scontro in atto.
Più articolate le posizioni degli altri partiti: il Pd, favorevole alle elezioni (dati i sondaggi), ma che accetta abbastanza di buon grado l’esecutivo Monti, ponendo qualche paletto, su tutti il no ad esponenti politici nel governo e la discontinuità; il Pdl che avrebbe preferito le elezioni, ha accettato, sia pur con dei mal di pancia, l’incarico al neo senatore a vita, ponendo diverse condizioni, quali un limite programmatico (e possibilmente temporale) al nuovo esecutivo, ma anche (d’accordo in ciò col Pd) un no ai politici nel
governo; Di Pietro ha dato un si, con riserve però, su programma, tempi e nomi di ministri (curiosamente quasi le condizioni poste dal PdL).
E’ ovvio che dinanzi alla crisi di un governo eletto, sarebbe stato preferibile il ritorno al voto, ma la situazione drammatica impone scelte che da un lato solo un governo unitario può compiere e dall’altro non consentono il ritorno alle urne a breve.
Il premier in pectore desidererebbe (lo ha dichiarato) la partecipazione al governo di esponenti dei partiti
che lo appoggino e sarebbe auspicabile che ciò avvenisse, onde evitare di indebolire l’esecutivo (che, pur non essendo certo a termine, avrà gioco forza vita breve essendo la “dead line” della legislatura
tra 15 mesi) con le forze politiche che si possano in ogni momento smarcare dalle inevitabili misure impopolari che verranno prese.
Ed è qui il punto centrale: Pd e Pdl avrebbero preferito le elezioni; non hanno granché voglia di sedersi insieme al governo, sia per il clima di scontro esasperato e di mancanza di legittimazione reciproca tra le parti (un pessimo esempio di ciò sono state urla e monetine contro Berlusconi al momento delle sue dimissioni, da cui ha preso le distanze il solo Casini; va però ricordato come il Cavaliere non abbia certo contribuito negli anni a rasserenare il clima), sia perché si tratterà di affrontare, in poco più di un anno, le emergenze del Paese scontentando anche i propri elettori di riferimento. Quanto costerà in termini di voti ciò al Pdl (verso la Lega) o al Pd (verso Di Pietro o Sel o Grillo), nella campagna elettorale tra poco più di un anno? Le questioni sono collegate: come faranno a votare insieme su provvedimenti che scontenteranno ora l’uno ora l’altro, dando l’impressione al proprio elettorato di averlo colpito, peraltro “in
combutta col nemico”? E’ su questo, più che sulla composizione, che si gioca davvero il destino del nuovo governo.
Si è disposti a rinunciare alle storture che avvantaggiano il proprio elettorato, a destra (ordini professionali, disciplina fiscale), a sinistra (eccesso di dipendenti pubblici, infrastrutture, pensioni,
mercato del lavoro), al centro (sprechi e clientele, soprattutto al Sud), o trasversalmente (Comuni e Regioni di ogni “colore” che sprecano fiumi di soldi in festicciole, consulenze, voragini nella sanità e quant’altro)? Se sì, il Paese porrà le basi per la “ricostruzione”; se non si è disposti a ciò, la politica avrà perseguito scientificamente il proprio suicidio, continuando, come fanno nei talk show gli esponenti dei partiti, a “becchettarsi” come i capponi di Renzo, non comprendendo che si è ad un punto in cui si sta
per finire tutti in pentola.
In conclusione, il programma del nuovo governo è semplice da scrivere (ma assai meno da attuare): basterà leggere il libro La Deriva, di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, che descrive puntualmente i mali d’Italia e da lì affrontarli, trovando adeguate soluzioni. In bocca al lupo, professor Monti: ne avrà bisogno.

 

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