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Il primato della politica: la tecnica da sola non è sufficiente

Questo articolo è stato pubblicato su l'Unità del 21 novembre
di Carlo Buttaroni

di Carlo Buttaroni
Per Platone la tecnica, cioè il “saper fare bene”, da sola non è sufficiente. Il primato della politica nasce proprio dall’evidenza di questo limite, perché anche la tecnica più evoluta ha bisogno di avere un fine. La politica rappresenta il luogo della decisione, la regia che assegna a tutte le altre tecniche le rispettive finalità.
Nonostante Il Presidente della Repubblica abbia tentato di innescare quote di regia politica nel Governo presieduto da Mario Monti, il nuovo esecutivo è nato con un profilo esclusivamente tecnico. Ci ha provato lo stesso Monti a coinvolgere personalità vicine alle diverse forze politiche, ma la risposta dei partiti è stata irremovibile: solo ed esclusivamente tecnici.

Non fu così nel dopoguerra, quando nacque la Repubblica, con il referendum del 2 giugno ’46. Gli italiani scelsero la forma repubblicana e 40 giorni dopo Alcide De Gasperi ottenne dal Parlamento la fiducia per un Governo di alto profilo politico di cui facevano parte, oltre ai cattolici, i comunisti, i socialisti e i repubblicani, con esponenti del calibro di Pietro Nenni, Mauro Scoccimarro, Antonio Giolitti, Mario Scelba, Emilio Sereni, Cipriano Facchinetti e molti altri leader storici. Altri tempi si dirà.

Più recente, e prossimo per analogie, l’anno 1992, quando le indagini legate a tangentopoli sul fenomeno della corruzione politica, portarono al coinvolgimento di numerosi esponenti nazionali e locali di tutto il pentapartito, provocando un terremoto dagli effetti distruttivi, con epicentro nel sistema dei partiti allora al governo. La crisi politica e la pressione dell’opinione pubblica spinsero il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nella primavera del ’93, ad affidare l’incarico a un tecnico, Carlo Azeglio Ciampi, fino allora Presidente della Banca d’Italia. Del Governo Ciampi fecero parte esponenti politici di maggioranza e di opposizione e la scelta non fu né facile né indolore, considerato il clima sociale avverso ai partiti e la pressione dell’opinione pubblica per un’azione moralizzatrice che mandasse in carcere i corrotti.

Per tornare ai giorni nostri, dunque, quello presieduto da Mario Monti è il primo Governo esclusivamente tecnico della storia della Repubblica. Ha assunto i pieni poteri con il 90% dei voti parlamentari. In pratica un plebiscito, se si escludono gli esponenti della Lega, plasticamente asserragliati a difesa della mitologica terra padana.

Monti dovrà affrontare una crisi drammatica, non solo dal punto di vista economico, ma anche sul piano sociale e politico. E non può sfuggire che il Presidente della Repubblica, nominandolo Senatore a vita prima di conferirgli l’incarico, abbia voluto trasferirgli, anche simbolicamente, una quota di quella “tecnica regia” indispensabile per governare, oltre che la politica economica, anche le istituzioni.

Il nuovo esecutivo, quindi, è meno tecnico di quanto appaia a prima vista. Né potrà esserlo, considerando che la quota di fiducia accordata al nuovo esecutivo contiene una delega politica piena per affrontare i problemi del Paese, nonostante i limiti, i paletti e le condizioni che quotidianamente pone il Pdl, il partito di Berlusconi.

I partiti e i leader politici non sono stati spodestati dal potere, come alcuni commentatori hanno scritto, ma hanno autonomamente scelto di abdicare – e non era mai accaduto prima, nemmeno ai tempi di tangentopoli – lasciando il passo a un Governo che dovrà con una mano dare risposte ai mercati e con l’altra riscrivere le regole per un nuovo patto politico e sociale che recuperi quel senso dello Stato e delle istituzioni a cui Monti, nel suo discorso ha fatto più volte riferimento, facendosi carico di una ricostruzione della civiltà istituzionale che non sarà né breve, né facile. Anche perché il lascito del berlusconismo è nella delegittimazione delle istituzioni rappresentative, nella percezione d’inutilità dei processi democratici, nell’affermarsi di un regime spettacolare che ha trasformato la razionalità della politica in seduzione e imbonimento.

Un sistema che, oggi, definiamo telecrazia e che Platone identificò nella retorica, l’arte, cioè, di ottenere consenso non attraverso l’uso di argomenti razionali, ma facendo leva sulla persuasione emotiva.

Il problema, come evidenziava Platone a proposito della retorica – e come oggi sappiamo a nostre spese – è che la democrazia si deve basare sulla razionalità politica.

Tutto questo è ben visibile nell’indagine di Tecnè, che pone in evidenza quanto le scelte del Presidente della Repubblica siano in sintonia con il sentimento prevalente nell’opinione pubblica.

La fiducia che gli italiani hanno in Napolitano e nel Presidente del Consiglio mette in sicurezza le istituzioni, mentre quella nell’esecutivo guidato da Berlusconi è la rappresentazione di una presa di distanza netta da parte della grande maggioranza dei cittadini. Allo stesso tempo il consenso alle organizzazioni sindacali e imprenditoriali, dopo anni di declino ricomincia a salire e con la fiducia che i cittadini hanno in se stessi, cresce la determinazione per uscire dalla crisi.

La fiducia nei partiti, invece, è ai minimi storici e investe tutti, senza distinzione di colore. E su questo nulla può Monti e molto devono fare i partiti stessi. A cominciare dalle forze politiche che siedono in Parlamento e che costituiscono la ex maggioranza e la ex opposizione, perché – come ha ricordato il Presidente del Consiglio – ciò che faranno e come si muoveranno lo giudicheranno i cittadini nel momento più solenne del processo democratico: le elezioni.

La ricerca – e le cronache di questi mesi – ci dicono anche un’altra cosa: chi a lungo ha predicato di poter fare a meno della politica ha fatto male i suoi conti. La promessa che la deregolamentazione dell’economia e la globalizzazione dei mercati avrebbe liberato l’individuo e risolto i problemi non si è realizzata, e la politica, piaccia o no, resta l’unico strumento di governo della società.

Occorre, invece, un nuovo inizio, che recuperi il comune sentire di una civile appartenenza, perché la libertà dell’individuo si accresce e si rafforza solo in un sistema di valori e di solidarietà intelligente.

La sfida alla quale sono chiamati i partiti è quella di sapersi ricostituire in agenzia di senso e di orientamento. E ciò è necessario proprio oggi, nel momento in cui il regno della finanza senza regole sferra il suo attacco mortale alle istituzioni democratiche.

 

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