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Una stangata. Ma ora riforme vere

di Antonio Caputo

Ponendo la fiducia sul testo uscito dalle Commissioni, che pertanto, salvo improbabili scossoni dell’ultima ora, sarà quello definitivo, si arriva finalmente al “rien ne va plus” sulla manovra, la prima dell’era Monti.
Un’altra correzione serviva per riportare i conti al pareggio nel 2013, essendo stata bruciata, causa aumento degli spread, una parte degli effetti delle manovre estive. Purtroppo lo spread non diminuisce, tutt’altro, e se le cose restano così, tutto lascia intendere che, complice la recessione, ci si ritroverà a febbraio-marzo alle prese con un’altra manovra.
Non c’è traccia, purtroppo, dell’equità promessa dal Premier nel suo discorso sulla fiducia di un mese fa. Il rischio che si abbatta su ceti medi e popolari già stangati dal fisco e sfibrati da una crisi senza fine, il costo dell’attuale intervento, è una quasi certezza: Ici prima casa, aumento Iva (da settembre), ritocco sulla benzina le misure più inique, perché colpiscono assai più chi ha meno. Molto meno ingiusto, ma pesantissimo, l’intervento sulle pensioni, addolcito appena dall’innalzamento a 1400 euro della soglia oltre la quale non ci sarà rivalutazione. Meno ingiusto perché da anni necessario per correggere gli squilibri.
La stangata è figlia di anni “da cicala”. A Monti va concessa l’attenuante-tempo: la manovra era necessaria, ed in tempi assai ristretti, ma ora serve una seconda fase, in cui pensare alle riforme: fatta quella delle pensioni, servono, su tutte, mercato del lavoro, fisco (ad impronta familiare per un rilancio della natività), scuola, giustizia, burocrazia.
Dove reperire le risorse? Semplice, quattro anni fa è partita un’inchiesta del Secolo XIX, su un tesoretto di 98 miliardi di euro (una tantum) di evasione fiscale delle slot machine. Bene: di quei 98 miliardi se ne potrebbe destinare metà ad abbattere il debito, cosa che ci eviterebbe di ricorrere al mercato per collocare 49 miliardi di titoli decennali (il che a tassi attuali del 6-7% significa anche risparmiare altri tre miliardi all’anno per dieci anni) e l’altra metà (trattandosi di entrate una tantum) per uscite una tantum, ossia le infrastrutture, su due fronti: 1) costruzione di autostrade, ferrovie, porti; 2) rimedio al dissesto idrogeologico. Un altro intervento necessario è quello sul fisco delle imprese: si spendono 35 miliardi di euro ogni anno per incentivi a fondo perduto elargiti ad imprese che poi, spesso, prendono i soldi e scappano; abolendo tale regalia, si potrebbe risparmiare metà di quei soldi, destinando poi l’altra metà a chi impresa la fa davvero, ossia tagliando Irap e cuneo fiscale, il che permetterebbe a imprese e lavoratori un balzo in competitività, produttività e remunerazioni.
Ci sarebbe tanto da aggiungere, ma voglio chiudere sull’Ici alla Chiesa. Purtroppo, in tempi difficili, è semplice, ma errato, trovare il capro espiatorio. L’esenzione dell’Ici ha per oggetto i luoghi di culto (ovviamente non solo cattolici) e gli edifici destinati ad attività assistenziali (scuole, ospedali, mense), che svolgono un ruolo di “supplenza” dello Stato nel fornire un servizio di welfare. Ma è proprio qui il punto centrale: lo Stato tassando tali attività, le farebbe chiudere e la collettività si dovrebbe sobbarcare costi ben maggiori per sostituirsi ai privati; il fatto stesso, inoltre, di considerare supplenza il ruolo che i privati (non solo la Chiesa: di analoghe esenzioni beneficiano associazioni di volontariato, patronati sindacali, circoli Arci) svolgono nel campo del welfare, indica come la cultura statalista (stavo per dire sovietica, sbagliando: è cominciata decenni prima della Rivoluzione d’Ottobre, che peraltro non c’è mai stata in Italia; all’epoca dello Stato liberale, con l’esproprio dei beni ecclesiastici, tra cui molte scuole, case di cura; è poi proseguita col fascismo, quindi, con la fase repubblicana dominata dalla Dc) impregni il modo di pensare comune. Se si fosse evitato di accentrare in un fornitore pubblico i servizi di welfare (quelli, almeno, che possono svolgere i privati) molta parte del debito non si sarebbe creata.
Ciò è accaduto per ragioni ideologiche (l’anticlericalismo liberale che non voleva un’istruzione fornita dai preti e che approfittava per togliere beni alla Chiesa; lo statalismo fascista che intendeva, pubblicizzando i servizi, esercitare un controllo dello Stato ossia del partito sulla società) e per ragioni feudal-clientelari: i politici della Repubblica, a caccia di voti (esigenza che né i liberali dell’800, né il fascismo, avevano) hanno allargato (per di più in eccesso sulle necessità) le maglie, per creare un esercito di dipendenti da assumere nella P.A. in cambio di voti. Un gigantesco sistema di voto di scambio nel pubblico, cui ha fatto da contrappeso nel privato un sistema corporativo più la chiusura di un occhio e mezzo sull’evasione fiscale: contrappeso che ha generato un equilibrio perverso non semplice da smantellare e che ci ha portati sull’orlo dell’odierno abisso.

 

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