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Immigrati. I diritti spariscono nel lavoro sommerso

di Carlo Buttaroni

Le attuali migrazioni sono fenomeni complessi, destinati a trasformare profondamente l’assetto dei sistemi sociali contemporanei. Di fronte a questa pressione l’opinione pubblica oscilla tra eccessi di buonismo e atteggiamenti di esasperata intolleranza, mentre ancora manca un quadro esauriente del fenomeno che consenta di progettare politiche adeguate. Basti pensare che solo dal 2005 i dati ISTAT sulle forze lavoro contengono anche stime sulla partecipazione di manodopera straniera, colmando così una grave lacuna informativa in un contesto di crescente rilevanza del fenomeno.
Eppure il rapporto tra immigrazione e lavoro è quello che più rappresenta il fenomeno migratorio, coinvolgendo la natura stessa dei diritti civili. Un tema che riguarda, nella stessa misura, migranti e ospitanti. Ed è proprio su questi aspetti che si misura l’evidente contraddizione tra le buone intenzioni legislative, affidate a corposi apparati normativi, e la realtà del mercato del lavoro sommerso, alimentato, in misura crescente, dai flussi d’immigrazione clandestina.
Si tratta soltanto d’inefficienza dei sistemi di controllo e di repressione o, invece, è un fenomeno che ha a che fare con caratteristiche più strutturali?
Per rispondere a questa domanda basti pensare che i flussi migratori, in questi anni, si sono mantenuti costanti anche con tassi di disoccupazione elevati, a dimostrazione che le spiegazioni economiche del fenomeno, legate alla struttura duale e segmentata dei nuovi mercati del lavoro, mantengono tutta la loro validità. Il permanere di elevati tassi di disoccupazione, infatti, non ha fatto diminuire la necessità economica di convivere con l’immigrazione, facendo registrare una peculiare relazione tra economia post-fordista e ampliamento dell’economia sommersa e informale. Il mondo del lavoro irregolare è l’ambito all’interno del quale gli immigrati offrono una risposta – paradossalmente efficace – alle trasformazioni e alla deregolamentazione dei sistemi produttivi.
La presenza di una quota di economia irregolare si sta affermando come una caratteristica strutturale dei sistemi economici contemporanei, e il lavoro immigrato sembra fatto apposta per rispondere efficacemente a questo tipo di domanda.
Basti pensare all’esigenza, quasi fisiologica, di ricorrere al lavoro nero per abbassare i costi di produzione da parte delle imprese che operano in regime di subappalto, di fronte a sistemi di aggiudicazioni basati su forti rincorse al ribasso; oppure allo sviluppo di alcuni nuovi servizi come l’igiene, la cura degli anziani, l’assistenza ai bambini che hanno fatto crescere una domanda di lavoro ad alta flessibilità e a basso costo; o alla riduzione degli spazi economici per settori ad alta intensità lavorativa e a basso contenuto tecnologico, come le micro-imprese edili, l’agricoltura e il piccolo commercio al dettaglio.
Fattori che hanno fatto crescere la domanda di manodopera non specializzata e con margini di flessibilità elevata anche dal punto di vista reddituale, che il mercato del lavoro ufficiale non è in grado di offrire. A questo si aggiunga la particolarità del mercato del lavoro che riguarda il segmento dei giovani, il cui tasso di occupazione è più basso rispetto alla media europea, e tende ulteriormente a diminuire proporzionalmente alla crescita del livello di scolarizzazione. Una dinamica che si alimenta anche della tendenza a rifiutare lavori scarsamente retribuiti e lontani dal percorso formativo.
E questo spiega, tra l’altro, il carattere prevalentemente non concorrenziale dell’offerta di lavoro immigrata.
L’alta incidenza degli oneri fiscali e contributivi che grava sulla retribuzione ha fatto il resto, alimentando la violazione degli standard retributivi minimi previsti dai contratti collettivi nazionali. E gli immigrati, irregolari e clandestini, finiscono per essere soggetti particolarmente esposti a simili violazioni, in ragione di convenienze relative, in quanto, proprio per evitare l’espulsione, non si rivolgono alle autorità amministrative per ispezioni, o alle autorità giurisdizionali per il riconoscimento dei propri diritti.
Tanto che per le imprese è più conveniente far lavorare immigrati clandestini anziché assumere irregolarmente immigrati in possesso di regolare permesso di soggiorno, che potrebbero avviare contenziosi e rivendicazioni rivolgendosi alle autorità.
L’idea che “sommerso è utile se non proprio bello” non è ormai sussurrato tra le labbra, ma esposto quasi come una necessità.
E’ evidente l’effetto di attrazione che finisce per produrre questa situazione per l’immigrazione. Molti immigrati – non solo disperati ma spesso alla ricerca di un miglioramento della propria condizione – tendono a considerare l’Italia un luogo dove è facile entrare, ancor più facile rimanere a causa della scarsa effettività dei controlli e, magari, trovare un lavoro ben retribuito rispetto al Paese d’origine, e dove l’impatto con fenomeni di intolleranza razzista e xenofobica è ancora relativamente basso, sebbene crescente.
Condizioni strutturali che non potevano che diventare il brodo di coltura dell’incontro tra immigrazione irregolare ed economia sommersa.
Tutto ciò apre una prospettiva di ben altra portata che potrebbe assumere, come suo specifico oggetto, la relazione tra diritto e uguaglianza. Uno specchio su cui si riflettono gli stadi di evoluzione del diritto, facendo diventare il fenomeno immigratorio, insieme alla prospettiva federalistica e alla giustizia intergenerazionale, uno degli elementi di problematicità costituzionale con cui debbono confrontarsi principi, valori e politiche. Il banco di prova è indubbiamente quello del lavoro. L’ampio bacino del sommerso e senza regole, alimentato dal fenomeno immigratorio, costituisce una sfida non soltanto all’uguaglianza nel diritto del lavoro, ma alla stessa effettività dei diritti e dei suoi apparati di regolazione. La posta in gioco, prima ancora che l’alternativa tra parità e adattamento delle regole, è la dimensione di effettività dei diritti che nessun apparato di controllo e di repressione, né una legislazione di sostegno ispirata alla moral suasion, sono probabilmente in grado di garantire.
Si sente la necessità di un approccio nuovo che arrivi a concepire la cittadinanza come un diritto costruito su un fascio di relazioni mirate all’integrazione sostanziale, il cui principale medium è il lavoro.
Proprio la complessità funzionale del rapporto tra immigrazione e mercato del lavoro potrebbe consentire, una diversa sequenza che metta in collegamento il riconoscimento dell’identità attraverso l’inclusione e il riconoscimento dei diritti, l’acquisizione della cittadinanza sociale e l’integrazione sostanziale. Una prospettiva in cui diversità e uguaglianza, non solo non sono contraddittorie ma inseparabili.
Se il fenomeno dell’immigrazione è strutturale, bisogna allora rifiutare l’emergenza come diaframma ideologico di approccio e occorre operare interventi strutturali in grado di rispondere ai problemi inediti che questa sfida impone. L’affermazione dell’eguaglianza dei diritti costituisce la base teorica per affermare una civiltà che si non si arresti ai confini dell’immigrazione ma la includa e la riconosca nel rispetto dei diritti fondamentali della persona. Ma una volta affermati i diritti, il problema è attivare percorsi per renderli concreti.
Un passaggio delicato e complesso che richiede una nuova alfabetizzazione culturale e politica. In questo quadro un ruolo fondamentale può essere svolto dalle Autonomie locali. Non solo perché le politiche dell’integrazione possono vivere soltanto se diventano pratiche attive, ma perché è proprio dal territorio che possono prendere vita politiche orientate a costruire le nuove città dei diritti.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 30 gennaio.

 

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