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Il lavoro l’emergenza: serve new deal

di Carlo Buttaroni

Nei quarant’anni che hanno preceduto la crisi, il Pil in Italia è più che raddoppiato ma il numero degli occupati non è cresciuto di pari passo; al contrario, è lievemente diminuito in proporzione alla popolazione residente. Un risultato che dipende, sostanzialmente, dalle innovazioni che hanno reso più efficienti i processi e hanno permesso alle aziende di produrre quantità sempre maggiori di merci con un numero sempre minore di lavoratori.
Se, quindi, da un lato le imprese si sono fatte più competitive, il rovescio della medaglia è stato che il numero degli occupati, rimasto invariato. Col tempo, inoltre, all’aumento della produzione non è corrisposto un incremento corrispondente nella domanda che, quindi, a un certo punto, non è riuscita ad assorbire l’offerta e per smaltire la grande quantità di merci che rischiavano di rimanere invendute si è fatto ricorso all’indebitamento. Una dinamica che ha caratterizzato tutti i Paesi industrializzati e si stima che, oggi, a livello complessivo, l’indebitamento sia circa il doppio del prodotto interno lordo.
E’ questa la spirale intorno alla quale si avvita la crisi, e tutti i tentativi di risolverla semplicemente rilanciando la crescita e incrementando la produttività, non solo non rappresentano una soluzione, ma rischiano addirittura di aggravarla.
Una crisi globale di portata storica come non accadeva dal 1929 e che non appare più solo congiunturale, bensì sembra entrare nelle viscere del “sistema”, fino a sfiorare il punto di rottura del sistema stesso nel momento in cui coinvolge, oltre alla dimensione economica, le interazioni con l’ambiente, la dimensione sociale della convivenza solidale e dell’esercizio democratico e la dimensione culturale che si esprime attraverso diritti e valori condivisi.
Un deterioramento complessivo, che gli strumenti tradizionali delle politiche economiche non sembrano in grado di governare, a cominciare dal punto di ricaduta più drammatico e sintomatico della crisi: l’occupazione.
In Italia, secondo gli ultimi dati Istat il tasso di disoccupazione è salito al 10,2%, con un incremento del 2,2% su base annua. Ancora più preoccupante è la condizione che riguarda i giovani, tra i quali i disoccupati sono il 35,9% (+6,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, con un picco del 48,3% al sud e del 51,8% tra le giovani donne del Mezzogiorno).
Ai disoccupati ufficiali si aggiungono gli “inattivi disponibili”, coloro cioè che vorrebbero lavorare, ma hanno deciso di rinunciare alla ricerca di un impiego, perché sfiduciati e rassegnati: per l’Istat sono quasi 3 milioni. Una cifra estremamente elevata, che ci vede in testa tra tutti i partner europei.
La riforma del mercato del lavoro, appena approvata al Senato, vuole rappresentare una soluzione a questa situazione, ma nei fatti appare rientrare nella categoria dei “vecchi strumenti”. Un testo che si presenta come un corpo legislativo aggrovigliato, che riduce i diritti e le tutele dei lavoratori e che non sembra in grado di attivare una riduzione reale delle forme di precarietà e di stimolare la crescita di un’occupazione stabile. Sembra, piuttosto, avviare una certa fluidità in uscita, con il rischio concreto di accrescere la massa dei disoccupati, degli inattivi e dei sottoccupati.
Per uscire dalla crisi serve altro, a cominciare da un cambio di visione e dal coraggio di seguire strade nuove. Come quello che caratterizzò il new deal rooseveltiano, che cambiò radicalmente i paradigmi di governo dell’economia, assumendo, in un momento di grande crisi, il 60% dei disoccupati e dedicandoli ad attività di sviluppo del paese: creando 13 mila parchi, piantando 3 miliardi di alberi, costruendo o ristrutturando 2.500 ospedali e 45 mila istituti scolastici, realizzando 1 milione di km di strade e 7.800 ponti. Qualcosa in più, cioè, di una semplice riforma degli ammortizzatori sociali o di “stangate” che avrebbero compresso di più i consumi.
Anche l’Italia e l’Europa hanno bisogno di un “nuovo corso” per uscire dalla crisi, perché l’asprezza della crisi economica merita risposte forti e coraggiose, sia in termini di rilancio di politiche attive per il lavoro che di difesa e valorizzazione del patrimonio industriale e d’irrobustimento del sistema di welfare. Il che deve voler dire, però, mettere in campo ricette e visioni nuove, perché altrimenti la cura rischia soltanto di aggravare la malattia da cui sono affette le economie moderne.
La crisi ha messo in evidenza come le politiche pubbliche che hanno indebolito i sistemi di welfare, offrendo in cambio forme finanziarie e di carattere risarcitorio, sono state incapaci di rispondere ai bisogni delle persone generati dalla crisi. Al contrario, c’è stato bisogno di consistenti iniezioni di valore per recuperare il terreno perduto delle tutele dismesse, con un inevitabile aggravio delle finanze a carico della collettività.
Il fallimento del modello, le cui conseguenze stiamo vivendo sulla nostra pelle, è causato anche dall’incapacità di prevederne e di governarne gli sviluppi: nonostante l’imponente strumentazione, non c’è stata, infatti, la capacità di anticipare i segnali della crisi, mentre sono stati sopravvalutati tutti i parametri di una crescita che si è dimostrata avvelenata dalla speculazione, dal degrado dell’ambiente, dal consumo indiscriminato delle risorse naturali.
Il risanamento delle finanze pubbliche sembra, oggi, essere l’unica priorità, a dispetto del lavoro e dei suoi diritti, dello sviluppo dei saperi e della lotta al cambiamento climatico.
Ma le ricette sinora diffuse, non solo non possono curare l’epidemia ormai innescata, ma sviluppano resistenze a ogni nuovo approccio che potrebbe veramente contribuire a un’uscita reale e duratura dalla crisi attuale.
Ma veramente si pensa di uscirne producendo di più, quando i problemi nascono dall’eccesso di offerta e dall’indebitamento reso necessario per sostenere la domanda?
Si possono fare tutte le riforme del mercato del lavoro, alzare o abbassare i tassi d’interesse, aumentare l’iva, mettere nuove tasse, istituzionalizzare l’equilibrio di bilancio, ma fino a quando non si cambierà modo di intendere lo sviluppo, il sistema sarà sempre soggetto a crisi cicliche, a oscillazioni, alla pressione dei mercati e alle speculazioni finanziarie.
Per superare la crisi occorre sviluppare un pensiero più evoluto di quello che ha accompagnato, e vuole continuare a proteggere, il modello economico attuale.
E’̀ possibile reagire al deterioramento economico e sociale percorrendo un cammino di riforme, fondato sul riconoscimento del valore del lavoro e dell’impresa, del welfare e dell’ambiente, del sapere e della giustizia sociale.
Bisogna superare la logica quantitativa della produzione, usando criteri di valutazione innovativi: non investire per produrre di più, ma per produrre meglio, riducendo gli sprechi e aumentando l’efficienza con cui si usano le materie prime, a cominciare dall’energia.
C’è bisogno di “piani casa” che puntino a recuperare gli edifici già costruiti, anziché a costruirne di nuovi; c’è bisogno di più infrastrutture sociali, più scuole, più trasporti pubblici; di alimentare un’economia di prossimità e di filiere corte.
La redistribuzione della ricchezza, dei diritti e dei poteri: questi i punti di forza su cui agire per costruire uno sviluppo diverso e più giusto. Bisogna spostare il peso degli equilibri sociali dal mondo della produzione a quello del lavoro. Occorre assumere la salvaguardia e la qualificazione del sistema di Welfare come fattore di sviluppo e indicatore di qualità dello stesso, ridisegnando un ruolo attivo delle politiche pubbliche nel governo dell’economia. Occorre attribuire centralità alla crisi climatica e alle tematiche ambientali più generali, sempre più connesse al complesso delle questioni sociali.
Ma per fare questo occorre cambiare i parametri che misurano lo stato di salute di un Paese, aprendosi a criteri come l’ampliamento delle opportunità e l’accessibilità, la sostenibilità ambientale e la salvaguardia del suolo e delle risorse, la partecipazione ai processi economici in maniera attiva.
Non è più solo una questione di buona gestione del presente ma di capacità di anticipare il futuro: il nostro benessere e quello delle generazioni che verranno dipende dal modo nel quale riusciamo a uscire da questa crisi.
Insomma un nuovo corso fondato sull’etica delle convinzioni e delle responsabilità: è questo ciò di cui abbiamo veramente bisogno.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 4 giugno. Sfoglia l’indagine Tecnè in Pdf.

 

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