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In Italia la sanità non è per tutti

di Matteo Romani

“Più di 9 milioni di italiani dichiarano di non aver potuto accedere ad alcune prestazioni sanitarie di cui avevano bisogno per ragioni economiche. 2,4 milioni sono anziani, 5 milioni vivono in coppia con figli, 4 milioni risiedono nel Mezzogiorno”. Il dato emerge dalla ricerca Rbm Salute-Censis “Il ruolo della sanità integrativa nel Servizio sanitario nazionale” promossa in collaborazione con Munich Re e presentata martedì a Roma al “Welfare Day”.
Si tratta di dati particolarmente significativi, specialmente in un paese che ha fatto della sanità pubblica, accessibile a tutti e, seppure con delle compartecipazioni, tendenzialmente gratuita, un modello dominante sin dallo sviluppo del Servizio sanitario nazionale. Cosa è successo per far sì che non tutti gli italiani potessero accedere alle prestazioni di cui hanno bisogno? Certamente la crisi economica ha influito e non poco sulle tasche degli italiani. Ma a ciò bisogna aggiungere il collasso del sistema sanitario, schiacciato da un malaffare dominante e dalle esplosioni incontrollate di costi e servizi. Per evitare il tracollo lo stato è dovuto intervenire. Piani di rientro e spending review hanno limitato i danni, determinando il crollo del ritmo di crescita della spesa pubblica per la sanità: “Si è passati da un tasso di incremento medio annuo del 6% nel periodo 2000-2007 – si legge nel rapporto – al +2,3% del periodo 2008-2010. La flessione si registra soprattutto nelle regioni con piano di rientro, dove si è passati dal +6,2% all’anno nel periodo 2000-2007 a meno dell’1% di crescita media annua nel periodo 2008-2010”. Ma le conseguenze non si sono fatte attendere. “La spesa sanitaria privata invece – si legge ancora nell’indagine – è aumentata più che nel periodo pre-crisi: +2,2% medio annuo nel periodo 2000-2007 e +2,3% negli anni 2008-2010 (l’incremento complessivo nel periodo 2000-2010 è stato del 25,5%). E il 77% di coloro che ricorrono al privato lo fa a causa della lunghezza delle liste d’attesa”. In sostanza si va dal privato anche e soprattutto perché dal pubblico si aspetta troppo. Le liste di attesa sono un altro caposaldo delle crisi della sanità italiana. Tempi biblici, mesi, a volte anni, per una visita che diventa quasi un miracolo e spinge il paziente a ricorrere all’imprenditore che però fa pagare, e anche caro. Non tutti chiaramente posso permetterselo. Ed ancora: “Nel 2015 è previsto un gap di circa 17 miliardi di euro tra le esigenze di finanziamento della sanità e le risorse disponibili nelle regioni. I tagli alla sanità pubblica abbassano la qualità delle prestazioni e generano iniquità”. Non solo il pubblico ti fa aspettare ma lo prestazioni erogate spesso non solo all’altezza. Ed il gradimento dei cittadini non può che essere conseguente: “parla di una sanità in peggioramento nella propria regione il 31,7% degli italiani, con un balzo di 10 punti percentuali in più nel 2012 rispetto al 2009, quando erano il 21,7%. Le persone che avvertono invece un miglioramento sono diminuite di oltre 7 punti percentuali”.
Per rilanciare il sistema assistenziale nazionale, tanto nelle regioni sottoposte a piani di rientro quanto in quelle a regime “ordinario” occorre innanzitutto riorganizzare il sistema. Il regime commissariale, i tagli a posti letto e prestazioni e le chiusure di ospedali rappresentano solo un debole palliativo. E’ necessario puntare a servizi territoriali che alleggeriscano il tasso di ospedalizzazione oggi eccessivo e che, al contempo, liberino i pronto soccorso dei grandi nosocomi dall’eccessivo afflusso di codici bianchi e verdi (fenomeno questo che, insieme ad una ma gestione, ha determinato le scene da sanità da terzo mondo che televisioni e giornali ci propinano settimanalmente). Solo agendo in questo modo si può ripartire con una sanità efficiente ed efficace. Ma senza perdere ulteriore tempo.

 

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