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Quanto valgono le bollicine della Coca Cola?

di Jacopo Lo Jucco

Il ministro della Salute Balduzzi ha recentemente proposto una nuova tassa di tre centesimi per ogni lattina di bevanda gassata, sulla falsariga dell’imposizione fiscale “anti-obesità” da poco varata in Francia. Il ministro sostiene che la tassa non crei problemi né ai consumatori né ai produttori, e possa aumentare gli introiti dello stato di 250 milioni di euro. Tuttavia la questione è abbastanza intricata, poiché è obiettivamente difficile riuscire a giustificare la manovra facendola passare come una misura per salvaguardare la salute dei cittadini. Dall’altra parte delle Alpi il capo della Coca-Cola Enterprise (primo imbottigliatore di Francia), Tristan Farabet, ha spiegato che “le bevande gassate rappresentano in media il 3,5% dell’apporto calorico quotidiano di un individuo […] non è certo concentrandosi su quel 3,5% che si affronta seriamente la questione dell’eccesso di peso. Le ragioni di salute pubblica semplicemente non reggono”. L’opposizione del manager non sorprende, siccome è anche lecito tirare acqua al proprio mulino, ma è tuttavia difficile tessere le lodi di un’inasprimento fiscale che dovrebbe essere educativo e che invece avrà un potere dissuasivo ben limitato: il prezzo al consumatore infatti incrementerà solamente di un centesimo di euro.
Sicuramente le bevande gassate non godono di una buona reputazione e dunque non ci saranno troppe proteste, ergo politicamente questa appare come una misura comprensibile. Ma dal punto di vista medico questa scelta ha un valore pari a zero. Molti nutrizionisti sostengono che se da domani fosse totalmente proibito il consumo di Coca Cola (o qualsiasi altra bibita gassata), i bambini resterebbero comunque obesi. La maggior parte dei succhi di frutta contengono naturalmente la stessa quantità di zucchero delle bevande gassate, e certe volte di più. La verità è che bisognerebbe dimostrare l’impatto delle bibite gassate sull’obesità e poi quantificarne il costo, un’operazione francamente impossibile.
La Coca-Cola in Italia, nel frattempo, ha fatto uscire un rapporto che indica che l’azienda rappresenta per l’economia un valore aggiunto pari a 3.163 milioni di euro, equivalente allo 0,21% del Pil: il 40% di tale cifra, pari a circa 1.251 milioni di euro, è versato sotto forma di tasse allo Stato il che equivale allo 0,37% del totale delle entrate fiscali in Italia. Inoltre, sul fronte dell’occupazione, l’azienda impiega direttamente 3.300 dipendenti mentre i posti di lavoro creati a livello diretto e indiretto sono pari a circa 45.300, equivalente allo 0,18% della forza lavoro totale a livello nazionale. In pratica ad ogni posto di lavoro diretto corrispondono 13 posti di lavoro indiretti all’interno dell’economia italiana. Le società di imbottigliamento creano dunque posti di lavoro, sostengono l’occupazione e generano redditi ed entrate fiscali in tutti i settori dell’economia.
Il tempismo col quale il rapporto è stato pubblicato lascia presagire una specie di difesa preventiva, tutto sommato giustificata: nel caso si decidesse veramente di intraprendere una crociata contro il “junk food” allora bisognerebbe colpire tutti i produttori del settore, non solo i fabbricanti di bibite gassate.

 

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