Crisi, Ocse: “Crescita lenta fino al 2060” | T-Mag | il magazine di Tecnè

Crisi, Ocse: “Crescita lenta fino al 2060”

Giovedì, il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi era stato chiaro: l’eurozona crescerà lentamente anche nel prossimo anno, in quanto le più recenti analisi economiche “non segnalano miglioramenti fino alla fine dell’anno”.
I governi della zona euro, secondo il parere del numero uno dell’Eurotower, non si sono impegnati abbastanza, perché i “visibili progressi fatti per correggere i costi unitari del lavoro” non sono sufficienti, se non sono accompagnati da “ulteriori misure per aumentare la flessibilità del mercato del lavoro e la mobilità”. La responsabilità, quindi, è da imputare agli esecutivi dell’eurozona e al loro scarso impegno per risolvere una crisi che nasce dalle “politiche insoddisfacenti” che alcuni paesi stavano portando avanti in quel preciso momento.
Ma se le dichiarazioni di Draghi sono poco rassicuranti, ancor meno lo sono le previsioni fornite venerdì dall’Ocse, secondo cui l’economie più industrializzate continueranno a crescere a ritmi molto lenti almeno per i prossimi cinquant’anni.
Il Pil del nostro Paese, in particolare, crescerà ad un ritmo medio annuo dell’1,4%, più o meno la stessa velocità a cui “viaggeranno” Portogallo, Spagna ed Austria. Peggio andrà, stando alle rilevazioni dell’Ocse, a Germania (+1,1%) e Giappone (+1,3%).
In particolare, le proiezioni dell’Ocse prevedono che il Pil italiano crescerà dell’1,3% l’anno tra il 2011 e il 2030 seguita da 1,5% nei 20 anni successivi mentre la media Ocse al 2060 è del 2%. Tutto questo farà sì che il peso del nostro Pil sul totale mondiale scenderà dal 2,8% segnato nel 2008 all’1,8% nel 2020 e all’1,4% nel 2060.
Una crescita così lenta è da imputare, secondo l’Ocse, all’invecchiamento della popolazione che eserciterà una pressione al ribasso sull’input di lavoro e sulla produttività.
Nello specifico, nel 2030 in Italia gli ultra 65enni saranno il 40% della popolazione e nel 2060 non saranno distanti dal 60%, il doppio rispetto ad oggi.
Ma l’invecchiamento della popolazione inciderà, e neanche poco, anche sulla spesa pubblica. Perché, come si legge in un’articolo di Carlo Buttaroni, presidente dell’istituto di ricerca Tecnè, pubblicato su L’Unità, “se da un lato si assiste a un notevole prolungamento della vita media e del periodo di permanenza degli anziani a carico del sistema di protezione sociale, dall’altro cresce anche il numero di anni che precedono l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro”.
“La conseguenza di questo stato di cose è un sistema – scriveva Buttaroni – sempre meno sostenibile dal punto economico e meno stabile, nel momento in cui la base fiscale si riduce e contestualmente aumentano i costi determinati dall’aumento della popolazione anziana a carico del sistema stesso. Le entrate e la spesa pubblica, infatti, risentono delle caratteristiche anagrafiche della popolazione. Le prime derivano dalla tassazione dei redditi di lavoro e, quindi, il periodo di massima contribuzione degli individui coincide con l’età lavorativa adulta; le punte massime della spesa pubblica si concentrano, invece, nelle due fasce estreme: la prima tra 0 e 20 anni e la seconda tra i 60 e gli 80 anni, con il secondo picco che supera abbondantemente il primo”.

 

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