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L’Europa nel tunnel dell’austerità

di Carlo Buttaroni

Doveva essere la migliore delle ricette possibili. Ma l’austerità forgiata nei laboratori di Bruxelles, oltre all’inefficacia, ha mostrato anche i suoi drammatici effetti collaterali. L’aspetto più allarmante dell’ultimo rapporto Istat non riguarda il presente, bensì le previsioni per il 2013: ancora recessione e ulteriore incremento dei senza lavoro. Si conferma così lo scenario depressivo anticipato pochi mesi fa dal Fondo monetario, che sta portando tutti i Paesi europei a una revisione al ribasso delle previsioni di crescita per l’anno venturo. Al posto della montiana “luce in fondo al tunnel”, il Paese si trova ancora a brancolare nell’oscurità. D’altra parte, solo qualche anno fa, all’inizio della recessione, i numerosi economisti che diedero voce sulle conseguenze allarmanti delle politiche di austerity rimasero per lo più inascoltati. La Grecia ha perso un quarto del suo prodotto interno lordo, in Spagna più della metà dei giovani è senza lavoro, l’Italia ha conquistato un nuovo record del debito pubblico, il Portogallo ha aumentato di 13 punti il suo deficit. Persino l’Olanda, altro paese che si sta sottoponendo alla politica del rigore, dovrebbe chiudere l’anno con un vistoso calo del prodotto interno lordo (-1,4%). Questi dati dovrebbero rappresentare una classifica per il podio del Paese migliore, invece ci servono solamente per capire le drammatiche conseguenze di quello che Krugman ha definito il “disegno moralizzatore”. Uno scenario a tinte fosche che sta coinvolgendo anche la Germania, che rallenta pericolosamente, mentre va un po’ meglio la Francia, che potrà così scansare, senza eccessivi affanni, i suggerimenti che la Germania le stava confezionando.
La vera sorpresa di questi ultimi mesi è la Gran Bretagna, cresciuta dell’1% in un solo trimestre, dopo tre di recessione. Ma, come sottolinea giustamente il Guardian, il Paese si è ripreso grazie a quell’iniezione di spesa pubblica chiamata Olimpiadi, che il conservatore e “austerity-addicted” Cameron non poteva tagliare, e che ha attirato un bel po’ di spesa privata aggiuntiva. In questo quadro, l’Italia colleziona l’ennesimo dato negativo e, se il quarto trimestre non porterà clamorosi miglioramenti, chiuderà l’anno con una diminuzione del Pil peggiore del previsto (-2,3%) risolvendo, definitivamente, il dubbio se siamo i primi degli ultimi (Grecia -7,2%, Portogallo -3,4%), oppure gli ultimi dei primi (Spagna -1,6%).
Le previsioni 2013, per il nostro paese, sono sconfortanti. Già quest’anno, la caduta del reddito disponibile e il clima d’incertezza dei consumatori hanno prodotto un consistente calo dei consumi (-3,2%). La contrazione della domanda e la diminuzione dei margini di profitto delle imprese, associata al peggioramento delle condizioni di accesso al credito, hanno inciso negativamente anche sulle spese per investimenti (-7,2%) e il prossimo anno le previsioni stimano un quadro ancora estremamente rarefatto sotto questo punto di vista. Una situazione che si aggrava con il progressivo deterioramento del mercato del lavoro e la crescente situazione di disagio finanziario delle famiglie. Nel complesso, il tasso di disoccupazione, anche a causa dell’incidenza della disoccupazione di lunga durata, potrebbe portarsi, nel 2013, a quota 11,4%. Insomma, uno scenario di guerra.
Cosa altro serve per capire che la cura non funziona? Si continua, invece, a disegnare road map irrealizzabili, con misure insostenibili, tanto che per rispettarle, l’Italia, nei prossimi 20 anni dovrebbe generare circa 6 punti di avanzo primario (cioè tra i 40 e i 50 miliardi di euro l’anno) da destinare esclusivamente alla riduzione del debito. Chi è più visionario, chi pensa di poter uscire dalla crisi proseguendo sulla strada del “rigore a tutti i costi” o chi ritiene – come molti economisti premi Nobel – che occorre mettere al centro politiche economiche che superino i paradigmi che ancora dominano l’orizzonte e che ci hanno portato a questa situazione? Occorre un passo avanti della politica. Perché se è vero che la crisi parte da lontano e affonda le radici nella globalizzazione, è altrettanto vero che ciò che la nutre non è l’interconnessione planetaria, ma l’arretramento della politica dal governo delle grandi questioni economiche. D’altronde, l’inizio del nuovo capitalismo finanziario mondiale prende avvio agli inizi degli anni ’70 con la scelta del governo USA di sospendere la convertibilità in oro del dollaro. Una decisione che ha azzerato gli accordi di Bretton Woods del 1944 che limitavano la circolazione dei capitali. Fu quello il fischio d’inizio della fase espansiva delle teorie iperliberiste, ispirate al pensiero di Milton Friedman che, negli anni ’80, hanno trovato interpretazione nelle politiche conservatrici di Ronald Reagan e Margareth Thatcher, centrate sulla deregolamentazione del mercato, sulla privatizzazione delle aziende pubbliche, sull’alleggerimento della struttura statale e dei sistemi di protezione sociale.
La rottura della relazione tra capitale e lavoro è stata una conseguenza inevitabile. Come inevitabile è stato il progressivo distacco dell’economia dal territorio e dalla dimensione nazionale, che di quel legame ha sempre costituito l’aspetto politico. Negli anni ’80 ha preso avvio un processo di progressiva indipendenza dell’economia finanziaria dal palinsesto pubblico e in particolare dallo stato e dalla legge. Un processo presto diventato insofferenza per la politica, il territorio, i confini, il limite, la legge e il diritto: elementi, questi, avvertiti come ostacoli alla consolidazione del potere della finanza. Una finanza che, in questi anni, ha preteso sempre più “mano libera”, rivendicando il potere di invadere i mercati con un rovesciamento dei rapporti di forza non solo tra capitale e lavoro ma anche tra capitalismo e democrazia.
Le centrali finanziarie sono diventate progressivamente un’istituzione strutturata, capace di agire come Stati nazionali, stabilendo i tassi d’interesse e – attraverso le decisioni d’investimento o di disinvestimento – sfiduciando quei governi che ritenevano attuare politiche economiche non gradite. Quelle centrali, oggi, rappresentano un potentissimo amplificatore delle fluttuazioni economiche: quando c’è crescita, amplificano l’espansione, ma quando c’è crisi spingono verso la recessione.
E’ questa la situazione che dobbiamo rovesciare se vogliamo realmente uscire dalla crisi: dare uno stop alle politiche del rigore che alimentano la crisi e rendono più forte il nuovo capitalismo finanziario. Occorre tornare a fissare le regole fondamentali dei movimenti di capitale a livello mondiale. Servirebbe, cioè, una nuova Bretton Woods. E, più che una riforma, sarebbe una rivoluzione.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 19 novembre. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf.

 

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