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La risposta degli italiani alla crisi

La crisi economica che ha colpito l’intera Europa e in particolare il nostro Paese ha portato gli Italiani a badare di più al risparmio, a liberarsi delle cose superflue e soprattutto a cercare di ridurre i consumi. Secondo quanto riportato dal 46° Rapporto del Censis sarebbero addirittura 2,5 milioni le famiglie che negli ultimi due anni hanno fatto ricorso ai compro-oro per vendere i propri preziosi per cercare la sopravvivenza. Altre 300 mila famiglie si sono viste costrette invece a disfarsi di mobili ed opere d’arte.
L’85% dei nuclei familiari ha dichiarato di aver ridotto drasticamente gli sprechi mentre il 73% ammette di andare a caccia del prezzo più basso.
C’è anche un altro fenomeno che sta dilagando in Italia, la trasformazione della propria casa in un Bad & Breakfast o in un agriturismo. C’è chi ricorre all’autoproduzione di frutta e verdura (2,7 milioni di famiglie); chi cerca di preparare i prodotti, come pane e pasta, in casa (11 milioni).
Testimone del fatto che il 62,5% degli italiani ha dichiarato di aver ridotto gli spostamenti in auto o scooter è sicuramente il calo del 25% nelle immatricolazioni auto. Si riduce dunque anche il numero di di famiglie che hanno più di un auto passando dal 33,4% del 2010 al 32,1% del 2011. Crescono al contrario le biciclette: nell’ultimo biennio si è registrato un incremento nelle vendite di 3,5 milioni unità.
A generare il calo dei consumi è sicuramente la riduzione del reddito medio degli italiani: negli ultimi vent’anni la ricchezza netta delle famiglie è aumentata del 65,4% grazie soprattutto dall’aumento, del 79,2%, del valore degli immobili posseduti. “I redditi, al contrario, non hanno subito variazioni: negli anni ’90 il reddito medio pro-capite delle famiglie è aumentato, passando da circa 17.500 a 18.500 euro, si è mantenuto stabile nella prima metà degli anni 2000, ma a partire dal 2007 è sceso ai livelli del 1993: -0,6% in termini reali tra il 1993 e il 2011. Negli ultimi dieci anni, la ricchezza finanziaria netta è passa da 26.000 a 15.600 euro a famiglia, con una riduzione del 40,5%. La quota di famiglie con una ricchezza netta superiore a 500.000 euro è praticamente raddoppiata, passando dal 6% al 12,5%, mentre la ricchezza del ceto medio (cioè le famiglie con un patrimonio, tra immobili e beni mobili, compreso tra 50.000 e 500.000 euro) è diminuita dal 66,4% al 48,3%. E c’è stato uno slittamento della ricchezza verso le componenti più anziane della popolazione. Se nel 1991 i nuclei con capofamiglia di età inferiore a 35 anni detenevano il 17,1% della ricchezza totale delle famiglie, nel 2010 la loro quota è scesa al 5,2%. Un ulteriore elemento che determina la riduzione del reddito medio è la quota rilevante di famiglie immigrate (il 6,6% del totale), per il 45,1% con un reddito inferiore a 15.000 euro annui”.
La caccia al risparmio ha fatto anche sì che gli italiani si avvicinassero sempre più all’e-commerce: il 14,9% degli italiani ha dichiarato infatti di esser iscritto a gruppi di acquisto online “che offrono beni e servizi a basso costo”. Di conseguenza cresce anche il numero di chi vende online e del relativo fatturato: si stima che nel 2011 le vendite online abbiano generato introiti per quasi 19 miliardi di euro, con un incremento del 32% rispetto all’anno precedente. Questo naturalmente è strettamente legato alla diffusione sempre maggiore delle nuove tecnologie.
“Siamo entrati nell’era biomediatica, in cui la miniaturizzazione dei dispositivi hardware e la proliferazione delle connessioni mobili ampliano le funzioni, potenziano le facoltà, facilitano l’espressione e le relazioni delle persone”, riporta il rapporto. Basta pensare che l’utenza del web nel Belpaese è aumentata del 9% nell’ultimo anno. Cresce del 27,7% l’utenza di smartphone di ultima generazione, quelli connessi sempre ad internet. Cresce l’uso dei social network che vengono utilizzati dal 47,4% della popolazione totale e dal 62,9% dei laureati e diplomati. Quasi la metà della popolazione (il 47,4%, percentuale che sale al 62,9% tra i diplomati e i laureati) utilizza almeno un social network”.

La crisi economica è anche crisi immobiliare dato che “nel periodo 2008-2011 il numero di mutui per l’acquisto di abitazioni è diminuito di oltre il 20% rispetto al quadriennio 2004-2007. Nel primo semestre del 2012 la domanda di mutui ha fatto registrare un’ulteriore contrazione del 44% rispetto allo stesso periodo del 2011. Sono però 907.000 le famiglie intenzionate a comprare casa nel 2012: erano 1,4 milioni nel 2001, sono poi scese a circa 1 milione nel 2007 e il consuntivo per il 2011 è stato di 925.000. Nel 2011 le famiglie che sono riuscite a realizzare l’acquisto sono state il 65,2%, ma quest’anno scenderanno al 53,5% (il 45,7% nei comuni capoluogo). Gli acquirenti sono in prevalenza già proprietari (8 su 10), per due terzi sono famiglie con due percettori di reddito, per il 61% appartenenti al ceto medio, per il 26% collocati nella fascia di reddito alta, per il 13% con reddito medio”.
La situazione finanziaria italiana e la crisi occupazionale hanno portato i giovanni a riposizionarsi rispetto alle scelte di studio e di lavoro. A fronte di questo risulta infatti che durante il 2011 il numero delle preiscrizioni agli istituti tecnici e professionali è cresciuto dell’1,9% con conseguente calo del 6,3% nelle immatricolazioni universitarie. I numeri prodotti dalla crisi occupazionale che ha investito l’Italia hanno evidenziato come la laurea non sia più una protezione alla disoccupazione giovanile ne tanto meno possa garantire più sicurezze rispetto al diploma professionale. Ciò ha portato quindi ad un calo dell’interesse nei confronti dei corsi di laurea umanistici e sociali: -3%. Crescono invece del 2,7% i percorsi di tipo tecnico e scientifico.
La situazione economica italiana ha portato anche ad una mancanza di fiducia nei confronti del proprio paese tant’è che il numero di giovani che intende terminare il proprio percorso accademico all’estero è cresciuto del 42,6% tra il 2007 e il 2010. Chiara conseguenza di ciò è il supplemento alle spese destinate all’istruzione da parte del 30,3% delle famiglie.
Non sono solo i singoli cittadini, studenti, lavoratori e disoccupati a soffrire la crisi. La crisi ha colpito anche, e soprattutto, le imprese: “il manifatturiero – riporta il Rapporto del Censis – ha subito un restringimento della base produttiva: il 4,7% di imprese in meno tra il 2009 e oggi. Il saldo tra iscritte e cancellate è stato pari a -30.023. Emerge però un processo di riposizionamento in corso. I flussi dell’export italiano sono parzialmente cambiati, orientandosi verso le economie emergenti: tra il 2007 e oggi la quota di esportazioni verso l’Unione europea si è ridotta dal 61% al 56%, mentre quella verso le principali aree emergenti è aumentata dal 21% al 27%. Attualmente la Cina assorbe il 2,7% delle nostre esportazioni, la Russia il 2,5% e i Paesi dell’Africa settentrionale il 2,9%. Negli scambi con l’estero è diminuito il peso del made in Italy (tessile, abbigliamento-moda, alimentari, mobile-arredo), ma è aumentata la penetrazione di altre specializzazioni manifatturiere, come la metallurgia, la chimica e la farmaceutica. Si è ridimensionato il numero delle imprese esportatrici (dal picco massimo di 206.800 unità nel 2006 si è passati a 205.302 nel 2011), ma aumentano gli investimenti in partecipazioni all’estero, che superano oggi le 27.000 unità (nel 2005 si era a quota 21.740). Dal 2008 a oggi le strutture commerciali che hanno chiuso sono state più di 446.000, a fronte di poco più di 319.000 nuove aperture. Nella prima metà del 2012 il saldo resta negativo (-24.390 imprese). Ma altri segmenti produttivi registrano segnali di crescita: prosegue l’espansione delle strutture della distribuzione organizzata (dalle 17.804 del 2009 alle 18.978 del 2011) e degli operatori del commercio via web, tv e a distanza (passati da 29.163 a 32.718)”.

Non solo dati negativi, ci sono ad esempio porzioni del sistema produttivo “che non sono rimaste immobili di fronte alla crisi”. C’è il sistema delle imprese cooperative, che tra il 2001 e il 2011 sono cresciute del 14% che sono quelle relatà che ancora riescono a generare occupazione: “+8% di addetti tra il 2007 e il 2011, a fronte del -1,2% degli occupati in Italia, e +2,8% anche nei primi nove mesi del 2012 (+36.000 addetti rispetto all’anno precedente). Ci sono le imprese femminili, oggi pari a 1.435.000, il 23,4% del totale delle aziende italiane: a settembre 2012 si sono ridotte appena di 593 unità rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, a fronte di una diminuzione di oltre 29.000 imprese guidate da uomini. C’è il sistema della media impresa, che conta 3.220 aziende, con un contributo del 15% alla produzione manifatturiera, che arriva al 21% se si considera l’indotto: negli ultimi dieci anni l’aggregato dei bilanci è rimasto sempre in utile, grazie anche al fatto che il 90% esporta, con una incidenza del 44% delle vendite all’estero sul fatturato complessivo. C’è poi il settore delle Ict, in particolare delle applicazioni Internet: nelle circa 800 start-up del 2011 l’età media degli imprenditori è 32 anni. E poi le green technologies: si stima che il 27% delle imprese industriali abbia effettuato investimenti in questo comparto, così come il 26,7% delle imprese di costruzioni, il 21% delle imprese di servizi, fino a punte di quasi il 40% tra le public utilities”.
La situazione economica del Pese ha portato gli italiani a guardare la politica e le istituzioni in modo diverso. Secondo il 43,1% degli italiani infatti le cause prinipali della crisi sono il crollo morale della politica e la corruzione.
Altri elementi dove ricercare le cause della crisi finanziaria sono il debito pubblico legato a sprechi e clientele (secondo il 26,6%) e l’evasione fiscale (26,4%). “La politica europea e l’euro vengono dopo (17,8%) – si legge ancora -, così come i problemi delle banche (13,7%). Il sentimento più diffuso tra gli italiani in questo momento è la rabbia (52,3%), poi la paura (21,4%), la voglia di reagire (20,1%), il senso di frustrazione (11,8%). Le paure per il futuro sono innanzitutto la malattia (35,9%) e la non autosufficienza (27%), poi il futuro dei figli (26,6%), la situazione economica generale (25,5%), la disoccupazione e il rischio di perdere il lavoro (25,2%)”.
Cresce quindi l’insofferenza nei confronti della politica, nell’ultimo anno infatti “i partecipanti a iniziative di protesta contro la politica sono stati il 4,1% della popolazione (fra i giovani la quota sale al 13%)”.

 

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