Obama reduxed. L’Europa e le sfide della presidenza 2.0 | T-Mag | il magazine di Tecnè

Obama reduxed. L’Europa e le sfide della presidenza 2.0

di Gianluca Pastori

Con l’insediamento della nuova amministrazione Obama si chiude (almeno formalmente) la lunga fase d’incertezza che ha seguito la riconferma del Presidente uscente nelle elezioni dello scorso novembre. Ciò, a maggior ragione, nel delicato settore della politica estera, che, negli ultimi mesi, ha assistito all’evidente ‘smarcamento’ di Washington da tutte le principali vicende. Rimane invece aperta alla speculazione quella che sarà la postura internazionale di Washington nei quattro anni che si prospettano. I cambiamenti intervenuti nei dicasteri-chiave degli Esteri (Dipartimento di Stato) e della Difesa, se approvati in sede congressuale, non lasciano presagire cambi di rotta significativi rispetto all’azione della coppia Clinton-Panetta; piuttosto, essi sembrano ribadire la volontà dell’amministrazione di proporre un’immagine meno assertiva in campo militare, più forte in quello diplomatico, e incline a ingaggiare le grandi questioni internazionali in termini di soft power. Tuttavia, proprio il basso profilo recentemente adottato dall’amministrazione intorno a una serie di core issues (la questione dei rapporti israelo-palestinesi dopo ‘Pilastro di difesa’ e il riconoscimento da parte dell’ONU dello status di ‘Stato osservatore’ per l’ANP; il dossier ancora aperto intorno al tema del nucleare iraniano; la crisi siriana; il deterioramento della situazione politica in Libia, l’evoluzione delle vicende in Mali, e, più in generale, i timori per il progressivo degrado delle condizioni di sicurezza nella regione…), offre il destro a quanti, dietro alle scelte compiute dal Presidente nel corso del suo primo mandato, hanno voluto scorgere i segnali di un riallineamento ‘di largo respiro’ della politica estera statunitense.
E’ nel quadro di questo ‘riallineamento geopolitico’ che occorre collocare la delicata questione delle relazioni fra Washington e l’Europa. Con maggiore o minore forza, il Vecchio continente ha sempre rivendicato una presunta ‘relazione speciale’ con gli Stati Uniti e una collocazione privilegiata (come interlocutore o come oggetto d’attenzione) all’interno della loro politica internazionale. All’epoca della prima elezione di Barack Obama, la questione è stata sollevata con particolare insistenza nella forma retorica della ‘definizione di un nuovo patto transatlantico’. Anche a causa della (ingenua) soddisfazione con cui, nel 2008, è stato salutato l’arrivo del nuovo Presidente alla Casa Bianca, il divario fra le attese e i risultati raggiunti si è rivelato, negli anni seguenti, particolarmente deludente. Se fra gli Stati Uniti e i loro partner europei non si sono più registrati momenti di tensione paragonabili a quelli del biennio 2002-03 (peraltro già composti negli anni del secondo mandato di George W. Bush), sembra, infatti, essersi rafforzato il senso di crescente straniamento che – sottotraccia – aveva alimentato le loro relazioni parallelamente all’emergere e al consolidarsi del ‘nuovo ordine’ post-bipolare. Non appare, dunque, casuale che, in Europa, la rielezione di Obama sia stata accolta con molto meno entusiasmo rispetto a quattro anni prima. In confronto alla versione precedente, l’‘Obama 2.0’ è un Presidente più concentrato sulla dimensione interna dell’azione politica, soggetto alle pulsioni contrastanti di uno scenario nazionale più polarizzato, e chiamato a ‘fare i conti con un’esiguità di risorse sia economiche sia psicologiche raramente così vistosa’ dopo la fine della guerra fredda1.

Il ‘We, the people’ che scandisce i passaggi-chiave del discorso d’insediamento rappresenta un segnale importante in questa direzione2. La rimodulazione della posizione dell’amministrazione, se da una parte conferma la volontà di vedere sempre gli Stati Uniti ‘àncora di solide alleanze in ogni angolo del globo’ e pronti a impegnarsi per ‘rinnovare le istituzioni che estendono la nostra capacità di gestione delle crisi all’estero’, dall’altra configura un netto ripiegamento su un processo di ‘costruzione dell’America’ presentato come largamente incompleto. Nel 2009, il riferimento era a un Paese ‘nel mezzo di una crisi’ e ‘in guerra contro un’estesa rete di odio e di violenza’; era, soprattutto, a un Paese in crisi di fiducia, e spaventato dalla convinzione dell’inevitabilità del suo declino. Quattro anni dopo, l’attenzione si sposta sulla generazione di americani ‘messa alla prova’ del ‘decennio di guerra’ che starebbe volgendo al termine, e da questo ‘temprata e confermata nella sua capacità di resistere’. Al netto della retorica che comunque caratterizza questo tipo d’interventi, le parole del Presidente segnalano un cambio di rotta. La rinnovata attenzione alla questione dei diritti civili – richiamati più volte, direttamente e indirettamente – è la spia di un cambiamento di priorità cui l’amministrazione sembra attribuire valore strutturale. E’, allo stesso tempo, una riaffermazione più o meno esplicita del principio ‘America first’ che, se negli anni di George W. Bush aveva portato all’imperial overstretching tanto temuto dai partner europei, in futuro sembra destinato a tradursi in un non meno inquietante ripensamento della postura di Washington verso i suoi interlocutori d’Oltreatlantico.

Ciò non significa che gli Stati Uniti non continueranno ‘a contare sull’Europa come un alleato e un partner sicuro per fronteggiare le crescenti sfide nel campo dell’economia e della sicurezza’1. Piuttosto, coerentemente con una tendenza che pur fra alti e bassi ha caratterizzato l’intero periodo post-bipolare, i rapporti fra le due sponde dell’Atlantico appaiono destinati a sperimentare una progressiva e crescente divergenza. L’esperienza dell’intervento in Libia – quando gli Stati Uniti sono stati, di fatto, trascinati dagli alleati europei in una campagna militare non voluta e in un processo di nation building dalle conseguenze tuttora imprevedibili – ha rappresentato, per l’amministrazione Obama, una prova scottante delle ricadute che le divisioni europee possono avere sulla sua politica estera e del modo in cui l’Alleanza Atlantica possa agire non solo – come sempre sostenuto – quale promotrice di stabilità ma anche quale cinghia di trasmissione delle tensioni che si agitano al suo interno. Proprio il rapporto con l’Alleanza costituisce una delle grandi incognite della ‘presidenza 2.0’. Gli anni trascorsi e il raffreddarsi dell’‘Obamania’ hanno sgombrato il campo da molti degli equivoci che avevano accompagnato la partecipazione dell’allora neo-Presidente al vertice ‘del sessantennale’ di Strasburgo-Kehl. Per contro, la convinzione che gli Stati Uniti siano disposti a svolgere ancora a lungo il ruolo di collante dell’organizzazione e di ‘ammortizzatore’ delle tensioni fra gli alleati europei ha radici profonde. L’interrogativo è se questa convinzione non rappresenti, essa stessa, la ragione principale delle difficoltà che la definizione del ‘nuovo patto transatlantico’ ha sinora sperimentato.

Gianluca Pastori è Professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. L’articolo è stato pubblicato in origine su www.ispionline.it

 

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