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L’Italia ora pretende risposte concrete

di Carlo Buttaroni

persone_politicaLa risposta a quanti ritengono percorribile la strada che porta a un governo Pd-Pdl arriva da Bari e Roma, dove hanno parlato Berlusconi e Bersani. Sono passati quasi cinquanta giorni dal voto e la distanza tra i leader delle due principali coalizioni non si è ridotta. Era prevedibile, altrimenti sarebbe nato subito un governo con una maggioranza analoga a quella che ha sostenuto il governo Monti. Il passare del tempo, invece, ha complicato la ricerca di una soluzione coabitativa che non era nelle corde delle due principali forze politiche. Distanze marcate da vent’anni di bipolarismo che ha posto centrosinistra e centrodestra su piani diametralmente opposti. A complicare il quadro, un’area Monti che non è riuscita a diventare una forza parlamentare in grado di sostenere un governo di centrosinistra o di centrodestra. L’unica alternativa possibile era quindi nelle mani del movimento di Beppe Grillo che, però, ha continuato a escludere ogni ipotesi di collaborazione con il Pd.
Dopo le manifestazioni di Bari e di Roma, si alzano di nuovo le probabilità di un rapido ritorno al voto, anche se non è detto che le urne possano offrire una soluzione all’impasse. A coalizioni invariate, infatti, i risultati elettorali potrebbero restituire una situazione analoga a quella del 24 e 25 febbraio scorso. Con la differenza, se gli ultimi sondaggi fossero confermati, che ad avere la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera (e quella relativa al Senato) sarebbe la coalizione guidata da Silvio Berlusconi. Variando gli addendi, comunque, il risultato molto probabilmente non cambierebbe. Il centrodestra non avrebbe i numeri per dar vita a un governo e si tornerebbe al punto di partenza.
E l’eventualità di cambiare la legge elettorale, tornando al “Mattarellum” (cioè un sistema misto con il 75% dei seggi assegnati in collegi uninominali e il 25% di proporzionale) rappresenterebbe una non-soluzione. Da uno studio realizzato da Antonio Agosta e Nico D’Amelio, dell’Università di Roma Tre, emerge che il ritorno al sistema elettorale in vigore tra il ’94 e il 2001, non renderebbe più facile la formazione di un governo. Secondo le simulazioni dei due studiosi di sistemi elettorali, sulla base dei risultati delle ultime elezioni, con il “Mattarellum” il centrodestra, pur avendo ottenuto meno voti del centrosinistra, avrebbe più seggi a Montecitorio ma assai meno di quanti ne ha assegnati l’attuale legge alla coalizione di Bersani. La coalizione guidata da Berlusconi avrebbe vinto, infatti, in 216 collegi uninominali conquistando altri 43 seggi dalla quota proporzionale, ottenendo in totale 259 deputati. Il centrosinistra, invece, avrebbe vinto in 192 collegi uninominali e altri 43 seggi sarebbero stati assegnati con la quota proporzionale, per un totale di 235 deputati. Il Movimento 5 Stelle avrebbe ottenuto 108 deputati (65 dai collegi uninominali e 43 proporzionali) e altri 15 sarebbero scattati alla coalizione guidata da Mario Monti, di cui uno soltanto proveniente dalla quota uninominale.
Anche abolendo del tutto la quota proporzionale, e assegnando tutti i seggi in collegi uninominali (dando, quindi, al sistema un’impronta maggioritaria), gli effetti istituzionali non cambierebbero e nessuna coalizione otterrebbe la maggioranza assoluta. I risultati dello studio si riferiscono alla Camera dei Deputati, ma è presumibile che risultati analoghi si otterrebbero anche al Senato. E’ pur vero che una competizione uninominale potrebbe spingere l’area montiana ad allearsi con il centrosinistra o con il centrodestra. Anche con l’attuale legge elettorale, però, se Monti si fosse alleato con l’una o l’altra parte, si sarebbe determinata una maggioranza solida. Il problema dello stallo non è, quindi, nella formula elettorale ma nel sistema politico.
La geografia del consenso uscita dal voto del 24 e 25 febbraio potrebbe non avere alcuna soluzione, anche cambiando la legge elettorale. Sia chiaro, la riforma resta una priorità assoluta perché il “porcellum” è una legge indegna per un Paese civile e democratico. Tuttavia, rovesciare i termini della questione, affidando alla tecnica elettorale la speranza di una soluzione ai problemi politici, rischia di allungare la durata di un blocco istituzionale che non possiamo permetterci perché la crisi non attende. L’allarme del presidente di Confindustria Squinzi circa la situazione economica delle imprese è drammatico: lo stallo istituzionale è costato un punto di Pil e parlare di crescita è ormai un miraggio. La Cgil segnala che la cassa integrazione è aumentata che sia ordinaria, straordinaria e in deroga. Le ore registrate a marzo (quasi 100 milioni) segnano un incremento sul mese precedente pari al +22,4%. Nel trimestre l’aumento è del +12% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Se si considera solo la cassa a “zero ore”, i lavoratori coinvolti sono circa 520 mila e il taglio del reddito, rispetto al 2012, è pari a un miliardo di euro. Se poi si tiene conto anche del ricorso medio alla cassa integrazione sul 50% del tempo lavorabile, invece, sono oltre un milione.
Per il segretario confederale della Cgil, Elena Lattuada, il sistema produttivo e l’intero mondo del lavoro stanno letteralmente precipitando, travolto da una valanga che non trova argini.
Gli effetti della crisi si respirano anche nel mondo scolastico ormai. Tra gli studenti. La Coldiretti stima che due alunni su tre rinunciano alle gite scolastiche e sono spesso gli stessi genitori a chiedere di evitare o ridurre i viaggi organizzati per evitare discriminazioni tra i ragazzi che non possono più permetterseli. Il carrello della spesa degli italiani è sempre più vuoto, come evidenzia il monitor socioeconomico di Tecnè. Un terzo degli intervistati ha ridotto la quantità (o evita di comprare) pesce, insaccati e carne. Il 25% fa a meno dei prodotti per la prima colazione e circa il 7% è costretto a rinunciare al latte, alla pasta e al pane. Ma la profondità della crisi è anche in altre rinunce. Più voluttuarie (come il cinema, il ristorante, la palestra), ma anche in quelle che segnano il grado di sviluppo qualitativo di un Paese, come le spese per la salute (analisi cliniche, visite specialistiche), rinviate da quasi un italiano su tre. Nel complesso, il 98% degli intervistati esprime un giudizio negativo sulla situazione economica dell’Italia e solo il 21% prevede che le cose possano migliorare nei prossimi 12 mesi.
Il Paese sta precipitando in un abisso e occorre la consapevolezza che non ci sarà un secondo tempo. Ciò che serve veramente è una la politica che torni alla responsabilità delle scelte. Continuare a sostenere che i risultati elettorali sono il risultato di una protesta “antipolitica” significa non aver capito nulla di quanto è accaduto. Nemmeno Grillo si è dimostrato capace di interpretare i risultati che l’hanno incoronato “vincitore morale”. Perché il voto ha dato voce a una società che non vuole arrendersi e non vuole solo urlare il proprio disagio, ma rafforzarsi nelle sue vocazioni primarie: lo sviluppo di qualità, l’efficienza del sistema sanitario, l’assistenza ai più deboli, la lotta alle disuguaglianze, l’attenzione al bene comune.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 15 aprile
Il monitor socioeconomico di Tecnè
Il monitor politico di Tecnè

 

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