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Manet, ritorno a Venezia

di Stefano Di Rienzo

manet_olympiaAttualmente presso la prestigiosa sede del Palazzo Ducale di Venezia si sta svolgendo una mostra monografica dal titolo “Manet. Ritorno a Venezia” (dal 23 aprile 2013 all’8 agosto 2013). L’esposizione punta ad indagare l’anima italiana di Manet sottolineando come la cultura del Rinascimento veneto sia stata la prima fonte d’ispirazione e dimostrando quanta modernità portò nella sua pittura l’antico spirito dei maestri veneziani e fiorentini.
Nella mostra sono esposte 80 opere tra dipinti, incisioni, disegni, progettata con la collaborazione speciale del Musée d’Orsay di Parigi, (l’istituzione che conserva il maggior numero di capolavori di questo straordinario pittore) e la fondazione Musei Civici di Venezia.
La mostra nasce dalla necessità di un approfondimento critico sui modelli culturali che ispirarono il giovane Manet negli anni del suo precoce avvio alla pittura. Questi modelli fino ad oggi quasi esclusivamente riferiti all’influenza della pittura spagnola sulla sua arte, furono diversamente vicini alla pittura italiana del Rinascimento come dimostrerà l’esposizione veneziana nella quale il pubblico potrà ammirare accanto ai suoi capolavori alcune eccezionali opere d’apres dei grandi tableaux della pittura veneziana cinquecentesca da Tiziano a Tintoretto a Lotto in particolare.
Come è ben noto gli studi di Manet, si sono per lungo tempo concentrati sull’idea di una sua diretta discendenza dell’opera pittorica di Velázquez e di Goya, vedendo proprio nell’ispanismo non solo l’unica fonte della sua modernità ma anche la ragione e lo stimolo per il suo rifuggire dai “ritorni” alla tradizione accademica. Un approccio progressista che non tiene però conto della passione di Manet per l’arte italiana della Rinascenza, che fu un legame davvero intenso di cui darà piena dimostrazione l’esposizione veneziana, e che metterà finalmente in luce il suo rapporto stringente con l’Italia e la città lagunare.
Il percorso espositivo si articola in nove sezioni che ripercorrono la vicenda creativa di Manet, amato dagli impressionisti ma da loro sempre distante sul piano stilistico e compositivo. La sala forse più stupefacente e senza dubbio la seconda dove si trovano l’uno accanto all’altro due grandi olii su tela: “La Venere di Urbino” (1538) di Tiziano prestato dalla Galleria degli Uffizi di Firenze e “L’Olympia” (1863) proprietà del Musée d’Orsay. Manet venuto in Italia tre volte nel suo soggiorno a Firenze nel 1857 esegue una copia della Venere, su di essa riflette e lavora (la mostra ne espone vari schizzi), e piano piano la assimila. Sei anni dopo questo processo creativo darà vita ad Olympia poi presentata nel Salon del 1865 dove si griderà allo scandalo e si scateneranno dibattiti accesissimi. Manet 325 anni dopo reinterpreta l’opera con sfrontatezza, sostituendo la figura della Venere con quella di una “femme de plaisir” (donna di piacere), interpretata dalla sua modella preferita Victorina Meurent, un fiore nero sui capelli e un nastrino nero al collo. Ma anche se le due tele hanno molti punti in comune il senso che esse comunicano è assai diverso: mentre la Venere di Tiziano trasmette un languore erotico denso di promesse, una tensione positiva di chi la guarda, lo sguardo di Olimpya sembra squadrare senza interesse l’osservatore. Proseguendo il confronto tra le tele, in quella francese scompaiono le ancelle, sostituite da una serva nera che porta il bouquet di un probabile ammiratore. Il cane tizianesco viene sostituito da un gatto nero con la coda sollevata forse a segnalare l’arrivo dell’uomo. La luce calda e diffusa in Venere diventa fredda e cruda in Olympia.
L’unico rimpianto tra i tanti lavori originali presenti in mostra è l’assenza del “Déjeuner Sur L’Herbe” (1863), poiché per lascito la tela non può lasciare Parigi e la Gare d’Orsay, il curatore Stephane Guegan assieme a Gabriella Belli, Direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia e Guy Cogeval, presidente dei Musei d’Orsay e dell’Orangerie di Parigi hanno esposto una copia più piccola eseguita da Manet per un amico conservata nella Cortauld Gallery di Londra.
L’itinerario dell’esposizione che percorre attraverso grandi capolavori come per esempio “Le Fifre” (1866), “La Lecture” (1865-73), “Le Balcon” (1869), “Portrait de Mallarmé” (1876 circa). Tutta la sua vita artistica si apre con una serie di libere interpretazioni di antichi dipinti, affreschi e sculture che Manet vide durante i suoi primi due viaggi in Italia nel 1853 e nel 1857. Immediata risplende l’influenza veneziana inseparabile dall’audacia con la quale il pittore snoda le istanze contemporanee e si defila dalle convinzioni accademiche.
L’Italia del resto non è assente neppure nei dipinti di Manet più legati alla Spagna dove la sua pittura religiosa si nutre tanto di Tiziano e Andrea del Sarto quanto El Greco e Velázquez. Le sue silenti nature morte riservano molte sorprese che non solo rimandano alla tradizione nordica ma sembrano anche ispirarsi a un vigore cromatico e costruttivo tutto italiano come “Ramo di Peonie Bianche e Forbici” (1864), “Il Limone” (1880), “L’Asparago” (1880). Quando il pittore si avvicina definitivamente alla “moderna” Parigi, la sua pittura non tralascia la memoria italiana ma ne resta intrisa di ricordi, come le tele di Lotto e di Carpaccio (pensiamo alle due “Dame Veneziane”, 1490-1495), racconteranno di questi legami ai visitatori.
Nella mostra si sottolineano le possibili influenze italiane di cui quella tizianesca.

 

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