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Poveri che lavorano il nuovo dramma

di Carlo Buttaroni

lavoroLi chiamano working poors, poveri che lavorano. Poveri nonostante abbiano un reddito mensile fisso. Una povertà nascosta sotto le mentite spoglie della normalità, per non darlo a vedere, per non essere considerati come tali. D’altronde, la crisi che stiamo vivendo genera nuove traiettorie d’impoverimento, modifica le forme del disagio sociale, sposta l’asse dalla marginalità alla vulnerabilità, vale a dire dall’idea di “povertà cronica” a quella di “processi d’impoverimento diffuso” in cui è coinvolta una moltitudine di persone cui il lavoro non assicura più i mezzi per una vita dignitosa e il sostentamento necessario. Ed ecco che quindi i working poors, definiti anche “poveri in giacca e cravatta”, rappresentano una delle più drammatiche conseguenze del momento buio che stiamo vivendo: in altre parole, una zona grigia di nuove povertà. Forse la più rilevante, dal punto di vista economico e sociale, nel momento in cui rappresentano una povertà che ha radici non nella mancanza del lavoro, ma nel lavoro stesso che non è più in grado di garantire un reddito sufficiente per una vita senza stenti. Se, un tempo, la presenza di anche solo un membro portatore di reddito in famiglia era condizione sufficiente per non cadere in povertà, oggi, con le medesime condizioni, una famiglia è sotto la soglia di povertà. E questo vale per una famiglia su dieci che stenta ad arrivare alla fine del mese. Il fenomeno non ha “professione”, ma ingloba quasi tutte le categorie: dal pubblico impiego alla piccola e media impresa, dall’edilizia all’artigianato, dal dipendente al lavoratore atipico, dai pensionati ai giovani in cerca di occupazione. Ed ecco che la gerarchia sociale introduce un nuovo tipo di classe, i cosiddetti “penultimi”. Una grossa fetta di popolazione che ha perso speranza e coraggio, che non riesce più a puntare verso l’alto della piramide sociale, ma si sente risucchiata verso il basso e sfiora pericolosamente la soglia di povertà fino spesso a oltrepassarla, risultando così schiacciata verso l’indigenza. Un ceto medio che va scomparendo, quindi, portando alla destabilizzazione degli stabili, con una regressione nella scala sociale fino alla proletarizzazione. Guardandoli allo specchio, però, sono poveri che non sembrano poveri: perché hanno un lavoro, quasi sempre il cellulare e l’automobile, ma non hanno soldi a sufficienza per mangiare fino alla fine del mese, per mandare avanti la famiglia facendo fronte agli impegni quotidiani.
Le storie sono tante. E diverse. Dipendenti con reddito fisso che hanno visto scemare il loro potere d’acquisto, anziani che percepiscono pensioni troppo basse, lavoratori precari o flessibili, donne separate con figli, famiglie numerose con più di tre figli, famiglie che collassano e crollano con il peggioramento delle condizioni socio-economiche, uomini separati che non hanno più casa e dormono in macchina, giovani con un titolo di studio medio o alto che non riescono a inserirsi in modo dignitoso nel mondo del lavoro e sono costretti ad accettare impieghi a termine e sottopagati, persone che all’improvviso perdono il lavoro di una vita o tutti i risparmi, persone colpite da gravi malattie invalidanti che le condannano all’emarginazione sociale. Non possono permettersi le vacanze, né curarsi adeguatamente. Sono 18 milioni gli italiani per i quali una spesa imprevista superiore agli 800 euro non sarebbe sopportabile. Cifre impressionanti. Per loro più che di nuove povertà, dovremmo parlare di povertà vecchie per persone nuove, con percorsi di caduta che accanto al tradizionale accumulo di eventi critici (disoccupazione, problemi di salute, disagio sociale, solitudine), se ne aggiungono di nuovi come l’intrappolamento nella precarietà. Forme di lavoro che non permettono alcun tipo di progetto o di percorso verso l’autonomia e che vedono sempre più giovani, donne e uomini maturi che non riescono comunque a far fronte agli impegni economici, né tanto meno riescono ad azzardare progettualità di alcun genere. Eppure spesso si tratta di soggetti che hanno quote elevate di capitale umano e che hanno acquisito significative competenze professionali e sociali data la loro lunga permanenza nel mercato del lavoro.
Secondo l’Istat, gli italiani in condizioni di povertà relativa sono 9,6 milioni, un esercito cresciuto di 1,4 milioni d’individui in un solo anno. Tra il 2011 e il 2012 i nuclei familiari sono aumentati di 219mila unità, le famiglie povere di ben 450mila. Vale a dire che per ogni nuova famiglia che si forma, due scivolano verso l’indigenza. Ormai il 12,7% delle famiglie residenti nel nostro Paese vive in condizioni di povertà relativa. E se la difficoltà a trovare un’occupazione si associa a livelli di povertà certamente più elevati (ben il 35,6% delle famiglie con a capo una persona in cerca di lavoro vive in condizioni di povertà) non ne sono immuni quelle che un lavoro, invece, ce l’hanno, come le famiglie di operai, tra le quali l’incidenza della povertà è pari al 16,9%. Nel complesso, la condizione di povertà relativa riguarda il 10,8% degli occupati (era il 9,1% nel 2011) ed è cresciuta sia tra i lavoratori dipendenti (+1,9%) che tra gli autonomi (+1,1%) colpendo anche le fasce sociali affluenti del ceto medio, come dirigenti e impiegati (+2,1%). Tra il 2011 e il 2012 i segnali di peggioramento si rilevano in tutte le ripartizioni geografiche: l’incidenza di povertà è passata dal 4,9% al 6,2% nel Nord, dal 6,4% al 7,1% nel Centro e dal 23,3% al 26,2% nel Mezzogiorno. In quest’area, in particolare, vive in condizioni di povertà il 32,3% delle famiglie di operai, il 24,1% di quelle con a capo un lavoratore dipendente e il 20,7% di quelle che hanno come persona di riferimento un lavoratore autonomo. L’Italia è il Paese che ha perduto più posizioni in Europa negli indicatori dello sviluppo economico e sociale e dove l’indice della popolazione a rischio di povertà propone gli scenari più inquietanti. I working poors rappresentano proprio il riflesso tremolante di un Paese fragile, ma che non ammette di esserlo.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 29 luglio. Sfoglia l’indagine Tecnè

 

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