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Quel che resta della “web tax”

di Giampiero Francesca

google_taxWeb tax sì, web tax no. Dopo la proposta di emendamento alla legge di stabilità dell’ On. Fanucci (PD) sulla regolamentazione della tassazione per le attività on line si è scatenata una vera bagarre. Ultimi, in ordine di tempo, ad intervenire sull’intricata questione, il neo-segretario del Partito Democratico Matteo Renzi e l’editore Carlo De Benedetti, autori di una polemica a distanza proprio in merito al problema. Alle pesanti critiche espresse dal sindaco di Firenze: “Chiediamo al governo Letta, al presidente del Consiglio di eliminare ogni riferimento alla web tax e porre il tema dopo una riflessione sistematica nel semestre europeo”, aveva infatti risposto il presidente del Gruppo editoriale L’Espresso intervistato da Giovanni Minoli su Radio 24, “Penso che Renzi sulla web tax sia stato mal consigliato. Rinviare il problema e dire “risolviamolo in Europa” mi sembra un po’ buttare la palla in tribuna”. Ma qual è l’esatto oggetto del contendere? Il testo di riferimento del dibattito prevederebbe infatti la modifica del D.P.R. 26 ottobre 1972 n.633, in merito alla vendita di servizi on line. In particolare i firmatari dell’emendamento proporrebbero l’aggiunta di due commi, all’art 17 bis, relativo alla regolamentazione della tassazione delle attività on line. Il primo dei due comma recita, “i soggetti passivi che intendano acquistare servizi online, sia come commercio elettronico diretto che indiretto, anche attraverso centri media ed operatori terzi, sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita IVA italiana”, mentre il secondo aggiunge, “gli spazi pubblicitari online e i link sponsorizzati che appaiono nelle pagine dei risultati dei motori di ricerca, visualizzabili sul territorio italiano durante la visita di un sito o la fruizione di un servizio online attraverso rete fissa o rete e dispositivi mobili, devono essere acquistati esclusivamente attraverso soggetti titolari di partita IVA italiana”. Le modifiche proposte avrebbero dunque come obiettivo quello di tassare i profitti delle società estere derivanti dalla fornitura di servizi online sul territorio nazionale. Questo dovrebbe consentire di combattere la cosiddetta elusione fiscale che caratterizza le transazioni web e che sfugge, quasi ovunque, al regime impositivo dei paesi in cui vengono effettivamente fruiti i servizi. Il problema della territorialità, difficilmente individuabile per le vendite online, e del reale luogo di fruizione dei beni, per prestazioni puramente virtuali, sarebbe così, almeno teoricamente, superato. Per giungere a questo obiettivo l’emendamento propone infatti di applicare un’imposta anche a tutti i soggetti giuridici esteri che traggono profitti dal contesto economico italiano. Stante la situazione attuale, infatti, queste aziende versano regolarmente i tributi nei paesi in cui risiedono legalmente, con imposizioni fiscali molto basse, e non negli stati in cui erogano i servizi. L’obbligo, come formulato nell’emendamento, prevederebbe dunque, per i committenti di servizi on line (soggetti passivi), di poter acquistare solo da soggetti in possesso di una partita IVA italiana. Vincolo questo, in cui rientrerebbero anche l’acquisto di spazi pubblicitari dei link sponsorizzati che appaiono nelle pagine dei risultati dei motori di ricerca. Il taglio dato alla stesura delle modifiche evidenzia come non si configuri un’imposizione dell’apertura di una partita Iva a carico di soggetti passivi di imposizione in paesi extra UE ma, esclusivamente, come obbligo, a carico del committente. Prospettiva questa che cerca di dare obbligatorietà al principio già espresso nell’art. 7 ter del D.P.R. 633/1972 in cui è miratamente previsto che le prestazioni di servizi si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando queste sono rese a soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato. Pertanto tutti i soggetti passivi che acquistano questo tipo di servizi online sarebbero costretti a relazionarsi solo con soggetti titolari di partita IVA, in quanto, altrimenti, non essendoci in maniera chiara ed inequivocabile l’esenzione dall’applicazione del regime IVA, questi rischierebbero di dover versare loro stessi l’imposta all’erario. Quanto di tutto questo sarà poi effettivamente approvato dalle Camere ancora non è dato sapersi. Le modifiche successive intervenute hanno infatti già ridotto drasticamente la portata della proposta eliminando l’obbligo di partita IVA per tutti i soggetti che effettuano il servizio di commercio elettronico (la cosiddetta Google tax). Dell’impianto originale resta, al momento, dunque ancora in piedi solo il vincolo di partita IVA per l’acquisto di spazio pubblicitari virtuali e dei link sponsorizzati.

 

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