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La vita in apnea scippata del futuro

Da Nord a Sud crolla il potere d'acquisto delle famiglie. Crescono i nuovi poveri
di Carlo Buttaroni

personeI numeri sono un bollettino di guerra, gli effetti quelli di una bomba al neutrone, quel micidiale ordigno che lascia intatti gli edifici e colpisce gli esseri viventi. Non ci sono macerie, né ponti distrutti, ma mutazioni profonde, definitive: 10 milioni di poveri e un terzo della popolazione a rischio povertà ed esclusione sociale, più di 3 milioni di disoccupati e un giovane su due senza lavoro. La rete d’imprese del manifatturiero, che rappresentano la spina dorsale dell’Italia, ha perso il 20% del suo potenziale negli ultimi dieci anni. Gli edifici e i capannoni delle fabbriche ci sono ancora, a testimoniare la trascorsa vocazione industriale, ma sono chiusi, deserti, abbandonati. L’esercito dei contribuenti, rispetto al periodo precedente la crisi, ha perso 400 mila unità. Il 48,7% di chi dichiara un reddito è un lavoratore dipendente e guadagna circa 20 mila euro lordi l’anno (ma ben il 37,6% si colloca nella fascia sotto i 15 mila euro).
I pensionati rappresentano il 34,1% dei contribuenti e più della metà (il 51,1%) percepisce un reddito inferiore a 15 mila euro. Solo nell’ultimo anno le persone in difficoltà economica sono aumentate del 5%, passando dal 27% al 32% e quelle che faticano ad arrivare alla fine del mese sono salite al 39% rispetto al 35% di 12 mesi fa.
E un’Italia che precipita, in caduta libera, lungo la scala sociale e si ritrova alle soglie della povertà. L’Italia che aggiunge, ai milioni di disoccupati e cassintegrati, altri milioni che non riescono ugualmente a pagare le bollette, che hanno prosciugato il conto in banca, che tirano giù per l’ultima volta la saracinesca del negozio o si rassegnano a far fallire l’impresa.
Le bollette della luce, del gas, le rate del condominio, la tassa della spazzatura sono diventate un incubo: oltre un quarto delle famiglie italiane ha difficoltà a pagarle.
Un Paese dove la diseguaglianza (dati Ocse) è aumentata negli ultimi 30 anni molto più che in altre economie occidentali.
Enormi quantità di ricchezza sono rapidamente passati da un’ampia fascia di popolazione a medio e basso reddito a una cerchia più ristretta ad altissimo reddito. Con la crisi, chi stava molto bene adesso sta ancora meglio mentre tutti gli altri stanno decisamente peggio. La forbice socioeconomica si è ampliata e la piramide della ricchezza, oggi, ha una basa più ampia rispetto al passato e un vertice notevolmente più stretto. Il divario si è accresciuto, anche perché la redistribuzione attraverso i servizi pubblici è diminuita. L’accresciuta disparità delle retribuzioni ha fatto sì che un maggior numero di persone ha dovuto attingere ai sistemi di protezione sociale. Il volume netto della redistribuzione mediante le politiche di sostegno del reddito è, infatti, aumentato ma tali politiche non sono state in grado di ridurre la disuguaglianza tra i redditi come in passato. La linea di demarcazione tra i poveri e i non poveri è sempre più sottile e sempre meno visibile. Basta la perdita momentanea del lavoro, la cassa integrazione o il sopraggiungere di una malattia per compromettere seriamente questo già fragile equilibrio. Ma anche avere un lavoro non protegge più dai rischi dell’impoverimento. Circa il 10% degli occupati è sotto la soglia della povertà. Sono quelli che le statistiche definiscono i “poveri che lavorano”. E le riforme messe in campo, dirette ad accrescere la flessibilità, non solo non hanno contribuito a creare un maggior numero di posti di lavoro, ma hanno aggravato il divario tra i redditi, dal momento che gran parte dei posti di lavoro creati sono state occupazioni part-time o scarsamente remunerate (Ocse).
Il crollo del ceto medio è il segnale di allarme rosso che suona da nord a sud. Fra il 2008 e il 2011, il potere d’acquisto delle famiglie si è ridotto del 5 per cento. Il vero colpo, però, è arrivato fra il 2011 e il 2012, con il potere d’acquisto sceso di un altro 5 per cento in un solo anno.
Se negli anni 90, il Paese poteva permettersi di mettere da parte quasi un quarto del suo reddito, oggi, su 100 euro di reddito, nel salvadanaio (ricchi compresi) ne vanno, in media, meno di dieci. Impiegati, insegnanti, commercianti, professionisti, piccoli imprenditori, sono stati travolti dall’onda anomala della crisi, trascinati ai margini della società, costretti a vivere in apnea, sospesi tra il sogno della ripartenza e l’incubo della povertà.
E in quel corpo sociale che, per anni, ha rappresentato il motore economico dell’Italia e il grande incubatore della fiducia nel futuro, oggi prevale un sentimento di pessimismo e di disillusione. Anche per questo, in piazza, più che i già poveri, ci vanno i borderline, coloro cioè che sentono la povertà sempre più vicina. Spinti più dalla rabbia che dalla speranza di ottenere risposte a domande che quasi non riescono a formulare.
Ed è comprensibile, perché il ceto medio ha pagato, più di tutti, le debolezze del nostro Paese: nelle infrastrutture, nell’istruzione, nella ricerca, nei servizi. E i nostri antichi punti di forza (la capacità di adattamento, l’imprenditorialità, le strategie d’impresa, la rete di welfare familiare, la qualità della vita dei territori) non riescono a sopperire ai deficit che abbiamo accumulato in questi anni. Per mezzo secolo la crescita dell’Italia è stata il prodotto di processi di sviluppo che hanno visto protagonisti l’iniziativa imprenditoriale, la vitalità delle realtà territoriali, la coesione sociale, la forza economica delle famiglie, la diffusa patrimonializzazione, il radicamento sul territorio del sistema bancario, la copertura pubblica e privata dei bisogni sociali. La crisi e le politiche d’austerità hanno colpito al cuore tutto questo e i nostri antichi punti di forza non riescono più a funzionare. Il dramma è che la classe politica non sembra essere realmente consapevole del baratro in cui il Paese è sprofondato. Come l’orchestra sul Titanic, continua a ripetere concetti e termini che nulla hanno a che fare con le preoccupazioni della vita collettiva. Come se nulla, in questi anni, fosse accaduto. Ma tutto è già successo. E il Paese ha urgente bisogno di un piano di ricostruzione nazionale senza il quale è impensabile uscire dalle acque basse in cui è incagliato e ritrovare fiducia nel futuro.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 20 gennaio 2014. Sfoglia l’indagine Tecnè in pdf

 

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