Ecco le nuove armi di Obama
Battagliero, vigoroso, carismatico e trascinante. Il discorso sullo stato dell’Unione, pronunciato da Barack Obama davanti al Congresso degli Stati Uniti, ha mostrato, dopo mesi (se non anni) di appannamento, il lato più forte del presidente americano, quello che aveva coinvolto e appassionato gli elettori americani e avvicinato alla sua politica milioni di persone in tutto il mondo. La particolare congiuntura storica ha infatti costretto l’ex senatore dell’Illinois a rispolverare la sua dialettica pungente, arricchendo il suo intervento di un decisionismo politico quasi inedito. Una scelta obbligata vista la profonda crisi che sembra attraversare la popolarità di Obama, nonostante tutti gli indicatori economici mostrino una decisa e continua ripresa per gli USA. Non basta dunque un PIL in continua crescita dal secondo semestre del 2011 (con un notevole +4,1% negli ultimi tre mesi del 2013) o un tasso di disoccupazione crollato dall’8,3% del 2011 al 6,7% di questo inizio 2014, per avvicinare la sensibilità di un elettorato ormai distante dal suo presidente. Secondo una ricerca condotta da New York Times e CBS news, infatti, meno del 40% degli americani condivide le scelte di politica economica dell’attuale governo statunitense. Un risultato quasi paradossale ma comunque figlio di ragioni molto precise. Come sottolinea infatti Dan Pfeiffer, responsabile strategico di Obama, “l’americano medio, seduto a casa a guardare le notizie in tv o su internet, ha visto il suo presidente occupato, negli ultimi sei mesi, dal caso NSA e dallo shutdown”. Una sensazione di immobilità ed impotenza aggravata da una diversa percezione che gli elettori statunitensi hanno del quadro economico generale. Se i dati macroeconomici appaiono infatti inoppugnabili l’economia reale non sembra altrettanto fiorente. Come evidenzia Geoff Garin, consulente Dem, “molti americani non sentono di beneficiare della ripresa e si sentono schiacciati nel loro tentativo di risparmiare per il futuro, di cercare un lavoro migliore, di mantenere alto il loro tenore con un costo della vita in aumento”. Obama risente inoltre di un effetto boomerang dovuto proprio alla forza e al carisma della sua immagine. Già al momento della sua rielezione era infatti emersa la difficoltà del presidente di confrontarsi con quella speranza audace da lui così fortemente alimentata. Dopo cinque anni di governo l’aura quasi rivoluzionaria, volutamente cavalcata durante le campagne elettorali, sembra così ritorcersi contro il suo stesso creatore. Come reagire dunque ad una situazione così complessa? Le frecce nella faretra di Obama sono, appunto, sempre le stesse; dialettica e speranza. Una speranza da rinnovare, cancellando dalle menti degli americani quell’immagine di un governo immobile, incapace di reagire ad uno stallo istituzionale che blocca nelle secche del Congresso molte delle riforme proposte. “Let’s make this a year of action”. Un proposito, quello di Obama, che si traduce in una presa di posizione nei confronti delle altre istituzioni americane, in particolare della Camera (a maggioranza repubblicana), dai quali, con veemenza fin ora inedita, dichiara una volontà di indipendenza. Se, infatti, nel discorso del 2012, l’ex senatore dell’Illinois semplicemente sollecitava i senatori a portare sulla sua scrivania le riforme di cui l’America aveva bisogno, oggi, richiama “ogni sindaco, ogni governatore, ogni legislatore degli Stati Uniti a non aspettare il Congresso per agire” e aggiunge che lui stesso “come capo esecutivo darà l’esempio”. Un esempio concreto, che non si limiti alle parole, ma che trovi concretezza in una serie di ordini esecutivi. L’ordine esecutivo è un decreto del presidente degli Stati Uniti, avente forza di legge, ma con conseguenze limitate senza un voto del Congresso. Uno strumento di intervento diretto, molto utilizzato in passato da Ronald Reagan (213 executive orders) e Bill Clinton (200 executive orders), ma decisamente meno impiegato da Barack Obama (147 executive orders). Ed è proprio nel richiamo esplicito all’utilizzo di questo particolare decreto che si manifesta la differenza fra questo discorso sullo stato dell’Unione e molte, precedenti, dichiarazioni, del presidente. Non c’è solo l’abilità dialettica di Obama, la sua grande capacità di proporsi, al tempo stesso, come mediatore e come innovatore, c’è anche la volontà di fare, di produrre risultati (seppur piccoli, limitati dai poteri concessi al presidente), di agire. Come, ad esempio, aumentare, in autonomia, il salario minino per i nuovi contratti dei dipendenti governativi, passando dal 7,25 dollari a 10,10 dollari. Un gesto quasi simbolico, che necessita comunque dell’approvazione del Congresso per essere esteso a tutti gli altri dipendenti, ma che, almeno nei confronti dell’elettorato americano vuole dare il segno di un cambiamento. Dello stesso tenore sono i decreti per imporre nuovi standard di efficienza ecologica per automobili e camion o per creare nuovi istituti di formazione professionale, tutti interventi limitati ma concreti. Se dietro queste iniziative, e più in generale, l’intero discorso, si celi solo un’abile strategia per riportare in alto le quotazioni del presidente ad un anno dalle elezioni di medio termine ancora non è dato sapersi. Resta comunque l’abilità di un presidente in grado, come pochi altri, di riaccendere gli entusiasmi toccando, sempre con le giuste parole, le corde più sensibili del suo elettorato.