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Una passeggiata nel bosco di Sanremo

di Giampiero Francesca

sanremo_festivalIl festival di Sanremo è probabilmente una delle materie televisive più difficili da plasmare. Trovare un equilibrio fra le istanze più tradizionali della kermesse e la necessaria innovazione è infatti l’arduo compito che, di anno in anno, gli autori della manifestazione si trovano costretti ad affrontare. Solo un anno fa il giudizio entusiasta sul lavoro di Fabio Fazio alla guida della sessantatreesima edizione della rassegna canora italiana era stato quasi unanime, trovando il suo principale fondamento proprio nella grande capacità del presentatore ligure di rivedere i canoni del format televisivo senza però stravolgere la natura profonda della manifestazione. Ripetersi però è notoriamente più difficile e anche Fabio Fazio sembra ora doversi scontrare con la complessità endemica del festival. Ma perché è tanto complicato rinnovare quel rito laico che, da sempre, è il festival della canzone italiana di Sanremo? Di primo acchito si potrebbe rispondere che gli ostacoli da superare siano di natura tecnica. Il festival infatti occupa una posizione privilegiata all’interno del palinsesto della Rai e, per questo, è vincolato al raggiungimento di precisi risultati. Non è un mistero che la televisione pubblica consideri il prime time della settimana sanremese come la sua più “alta stagione”. Questo però comporta l’obbligo, per chi pensa e scrive il programma, di rincorrere quel pubblico generalista, trasversale, spesso non giovanissimo, socialmente e culturalmente non omogeneo, necessario per ottenere lo share desiderato. L’obiettivo, per intenderci, dovrebbe essere quello di mantenere davanti ai piccoli schermi almeno gli spettatori di Don Matteo 9, fiction di punta della Rai, i cui dati superano in media gli 8.000.000 di telespettatori, con uno share medio di poco al di sotto del 30% (la fiction ha infatti segnato, a gennaio: 9 gennaio, 8.759.000, 29.66% – 23 gennaio 2014, 8.311.000, 28.02% – 16 gennaio 2014, 8.091.000, 27.9%). Questa ragione tecnica, a ben guardare, altro non è però che la manifestazione visibile di un più sostanziale problema. Dire infatti che l’autore di un’opera rincorre il suo pubblico significa, in una qualche misura, ribaltare quel rapporto autore-lettore che ha caratterizzato la semiotica contemporanea. A tal proposito non si può non fare riferimento alla definizione che Umberto Eco fa del Lettore-modello nelle sue lezioni ad Harvard raccolte nel volume “Sei passeggiate nei boschi narrativi” come di “un lettore-tipo che il testo non solo prevede come collaboratore, ma che anche cerca di creare”. La dialettica che si sviluppa è dunque quella fra un lettore-tipo ed un autore-tipo. Autore che non va, ovviamente, inteso, come un autore empirico, ma come “una voce che parla affettuosamente con noi, che ci vuole al proprio fianco”, una voce che si manifesta “come strategia narrativa, come insieme di istruzioni che ci vengono impartite a ogni passo e a cui dobbiamo ubbidire quando decidiamo di comportarci come lettore modello”. Questa dinamica prevede dunque che sia il destinatario a cercare nel testo le intenzioni dell’autore. Ma cosa succederebbe se questo principio fosse capovolto? Cosa accadrebbe se fosse l’autore a dover seguire l’intenzione interpretativa del suo spettatore? Non sarebbe più il testo, che inizia con un ‘C’era una volta’, a lanciare un segnale che immediatamente seleziona il proprio lettore modello, un bambino, nell’esempio di Umberto Eco, ma il bambino stesso a costringere il testo ad iniziare con quella frase. E’ ovviamente un paradosso teorico, un volo pindarico, ma che, tornando a livello di autore-lettore empirico, può riportarci a quanto accaduto al festival. Nel caso di questo spettacolo infatti è il pubblico a scegliere, a leggere quanto gli viene proposto e a deciderne le sorti. La mancato o errata comprensione del testo provoca inevitabilmente un rifiuto, un allontanamento. Una bocciatura che, come detto, per ragioni tecniche, gli autori non possono accettare. Ecco dunque dove nasce il dilemma di Fabio Fazio e di chi lo ha preceduto. Ed ecco dove si possono rintracciare le ragioni profonde dei tentennamenti, delle incertezze e dei punti deboli di questo festival. Il presentatore ligure ha infatti cercato di riutilizzare gli ingredienti che gli erano valsi il successo lo scorso anno per replicarne i risultati. Il rapporto con il pubblico però era, stavolta, diametralmente opposto. Il bambino pretendeva il suo “c’era una volta”. Quel mix di pop e tradizione, giovani promesse e vecchie glorie, cultura alta e spettacolo kitsch, fondamentale nel 2013, risultava, sotto quest’ottica, più difficile da decifrare, a tratti quasi illeggibile. Il punto cercato di equilibrio, cercato ma non trovato, ha finito così per far perdere parte del pubblico alla manifestazione, un pubblico incapace di ritrovare la sua immagine (o l’immagine che si era prefigurato del festival) nelle serate festivaliere.

 

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