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Dodici indicatori sullo stato del Paese

Banda larga, ricerca e innovazione: Italia tra gli ultimi
di Carlo Buttaroni

internet_banda_largaLa crescita del Pil nell’ultimo trimestre del 2013 è una buona notizia. Ma non basta. Non è ancora l’annuncio di una nuova stagione e per diventare almeno un indizio, se non proprio una prova, ha bisogno di ulteriori conferme. Per capirne di più, dovremo vedere se il trimestre in corso registrerà un segno positivo più consistente del precedente. In questo caso, vuol dire che l’economia reale ha ripreso, seppur lentamente, a muoversi. Per adesso, il miglioramento dipende in grande parte dalle esportazioni, cioè dagli altri Paesi che hanno ricominciato a tirare, mentre sul fronte interno i segnali sono ancora troppo deboli per essere considerati l’inizio della primavera.
La debolezza della domanda aggregata riguarda soprattutto i consumi delle famiglie e senza una ripresa dei consumi, con un tasso di disoccupazione in crescita, l’inverno potrebbe essere ancora lungo. Senza contare che una ripresa così lenta significa un percorso per l’Italia di almeno dieci anni per tornare ai livelli pre-crisi. Per risalire servirà, cioè, il doppio del tempo impiegato per scendere. E nell’economia globale di oggi la velocità non è una variabile trascurabile. Crescere lentamente significa accumulare ritardi nei confronti dei Paesi più dinamici. Non bisogna scomodare la relatività per capire che se il mondo viaggia a 100 e l’Italia a 1, la distanza crescente farà sembrare del tutto fermo il nostro Paese. La posizione competitiva dell’Italia dipende dalla velocità con cui uscirà dalla crisi e recupererà il terreno perduto. Per adesso la lettura dei parametri economici ci vede penalizzati. Le stime per i prossimi anni indicano che la velocità della ripresa economica in Italia sarà più lenta della media europea. E a preoccupare, oltre agli indicatori economici, ci sono anche elementi strutturali, che descrivono il ritardo accumulato in questi anni e che è necessario colmare per tornare competitivi.
Per misurare la distanza che ci separa dagli altri Paesi europei, abbiamo utilizzato 12 “assi indicatori”: la diffusione della banda larga, il numero di imprese che innovano, la spesa (pubblica e privata) in ricerca e innovazione, la spesa pubblica in istruzione, il numero di laureati (nella fascia tra i 30 e i 35 anni), la popolazione attiva, la quota di disoccupazione di lunga durata e di disoccupazione giovanile, la dinamica del Pil e la quota di Pil pro-capite, le disuguaglianze e l’andamento dei consumi delle famiglie. Un set evidentemente non esaustivo, ma sufficiente a descrivere la fragilità complessiva del nostro sistema economico e sociale.
Oggi, se l’Italia si trovasse su una pista con tutti gli altri partner europei, il ritardo alla partenza del nostro Paese sarebbe schiacciante in molti campi.
Per rendersene conto basta scorrere le classifiche che abbiamo elaborato sulla base dei dati più recenti Istat e Ocse. Per renderne omogenea la lettura, ciascun asse è disposto sulla medesima scala da 100 (il migliore) a 1 (il peggiore).
Se analizziamo la diffusione della banda larga, la Svezia è al 1° posto (100 punti) mentre l’Italia è al 24° posto (14 punti), a 86 punti di distanza dalla prima e assai più vicina all’ultima (Romania).
Va meglio per quanto riguarda le imprese innovatrici: Italia in 12esima posizione staccata di 33 punti dalla Germania. Scendiamo al 17° posto, invece, per quanto riguarda la spesa in ricerca e sviluppo, dove la migliore è la Finlandia. Scivoliamo verso il fondo della classifica nella spesa pubblica per l’istruzione e la formazione, dove in testa c’è la Danimarca con 86 punti di vantaggio. E non è un caso, bensì una conseguenza, se siamo ultimi in Europa per quanto riguarda il numero di laureati nella fascia d’età tra i 30 e i 35 anni. Saliamo di poco e diventiamo penultimi nella quota di popolazione attiva (di cui fanno parte le persone che lavorano, più quelle in cerca di occupazione). In testa ci sono Svezia, Paesi Bassi, Danimarca e Germania. In fondo, oltre l’Italia, c’è la Romania, che ci precede di poco, e Malta che chiude la classifica.
Va male anche per quanto riguarda due indicatori economici come la disoccupazione di lunga durata e quella giovanile. La disoccupazione di lunga durata è un parametro fondamentale per valutare lo stato di salute di un’economia. Innanzitutto, una prolungata assenza dal mondo del lavoro danneggia irrimediabilmente il capitale umano perché deteriora competenze e talenti e tende a diventare strutturale, cioè non più recuperabile alle attività produttive. Un tasso elevato di disoccupazione strutturale può compromettere per lunghissimo tempo le ambizioni di un’economia. Per quanto riguarda la minor presenza di disoccupazione di lunga durata l’Italia è al 22° posto, assai lontana dalla Svezia che è in testa alla classifica. Scendiamo di ulteriori due posizioni nell’indicatore che riguarda la minor presenza di disoccupazione giovanile. In questo campo prevale su tutti la Germania mentre l’Italia, tra i 27 paesi europei, è al 24° posto.
L’indicatore della dinamica del Pil riflette la lentezza della nostra crescita. Negli ultimi 12 anni siamo il Paese europeo che è cresciuto meno. In testa alla classifica risultano le economie dell’est, con tassi decisamente superiori non solo a quelli dell’Italia ma anche a quelli della Germania, della Francia e del Regno Unito, che comunque ci precedono nella classifica del Pil pro-capite, dove l’Italia si posiziona al 12° posto, sotto tutte le altre economie avanzate. Nella classifica che tiene in considerazione la minor presenza di disuguaglianze economiche, l’Italia è al 18° posto e si colloca nella parte bassa per quanto riguarda il punteggio specifico. Ciò significa che gli italiani, non solo sono diventati più poveri, ma che la ricchezza tende sempre di più a concentrarsi aumentando il divario tra i pochi che stanno bene e i molti che stanno male.
La crescita delle disuguaglianze, la contrazione del Pil, l’aumento del tasso di disoccupazione (di lunga durata e giovanile), insieme al deterioramento dei redditi e del potere d’acquisto, si riflette inevitabilmente nella diminuzione dei consumi delle famiglie. Qui l’Italia è al 24° posto. Conseguenza anche del fatto che, mentre in tutte le altre economie avanzate il Pil è sceso ma i redditi delle famiglie sono cresciuti, in Italia è successo che i redditi sono diminuiti di pari passo all’andamento del prodotto interno lordo. Col risultato che la crisi si è avvitata su stessa e l’Italia è l’unico Paese, tra le grandi economie, ad aver chiuso il 2013 in recessione.

Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 24 febbraio. Sfoglia l’indagine in pdf

 

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