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Le vite di scarto di Paolo Sorrentino

di Giampiero Francesca

la_grande_bellezzaTanto si è detto e tanto si dirà ancora su La grande Bellezza di Paolo Sorrentino. Dalle analisi filmiche dei cinefili, alla continua ricerca delle (molte) citazioni, alle interpretazioni sociologiche più fantasiose, dai voli pindarici alle aspre critiche (spesso immotivate o faziose), la statuetta, conquistata nella notte degli Oscar, ha scatenato l’immaginazione di critici e giornalisti. Ma la pellicola, ed è forse anche qui la sua grande bellezza, si presta ad un numero infinito di interpretazioni, tanto densa e ricca è la narrazione e la messa in scena. Fra i tanti che ne hanno parlato però, il duro editoriale dedicato al film da Le Monde, all’indomani della vittoriosa nottata, appare il più ricco di spunti di riflessione. Il quotidiano francese costruisce infatti un parallelo fra la Roma decadente raccontata dal regista napoletano e la loro visione dell’Italia di oggi, un paese in costante declino economico, sociale e culturale. Sarebbe semplicistico liquidare la pellicola con un paragone tanto grezzo, frutto anche di uno sguardo forse troppo distante dalla realtà di casa nostra, ma la ricerca della nostra Grande Bruttezza (non solo italiana), all’interno de La grande bellezza, non è certamente una fatica vana. Chi ha infatti visto nelle carrellate per le vie di Roma, negli articolati movimenti di macchina fra lungotevere e il Gianicolo, nelle passeggiate di Jep Gambardella una cartolina da inviare direttamente ad Hollywood, non ha probabilmente colto la profondità del messaggio sorrentiniano. Quella vissuta dall’autore dell’ipotetico L’apparato umano è una Roma di fine impero, bloccata in un eterno ed immutabile limbo, intrisa di quella rassegnazione ed inerzia che da sempre segna questa città. Il piccolo uomo, inerme, davanti alla magnificenza del Colosseo diventa così uno spettatore impotente di un disfacimento che non giunge però mai alla definitiva rovina. E senza rovina non può esserci catarsi. Nella quiete solitaria delle lunghe camminate di Tony Servillo, fatte di un silenzio più assordante del rumore delle sue feste, è nascosta la continua ricerca di questa fatiscenza, permeata dalla consapevolezza della più totale e assoluta inadeguatezza.
Il tentativo di scovare questa grande bellezza cela dunque in realtà l’illusione di poter fare qualcosa, di poter risollevare i destini infausti di una società. Cosa c’è di reale in questa rappresentazione? Quanto racconta della contemporaneità Paolo Sorrentino? Probabilmente molto più di quanto, consciamente, immaginato. Roma diventa infatti, nella sua opera, una metafora urbana; una metafora che va oltre i confini del nostro paese e si allarga ad una più generale rappresentazione di una società di fine impero. Guardando le immagini de La grande bellezza non possono infatti non venire alla mente le parole, inquietanti, del grande sociologo Zygmunt Bauman. Quella che traspare dalle sequenze del film è infatti proprio la società liquida da lui teorizzata, dominata da un’instabilità e un’incertezza che ha orami modificato in modo irreversibile i suoi protagonisti. Individui che, come mostra Paolo Sorrentino, vivono nel costante terrore dell’isolamento, costretti ad adeguarsi alle regole del gruppo. Essere parte del sistema, andare alle feste, contare qualcosa, diventa un bisogno esistenziale, senza il quale si finisce per esser esclusi dalla modernità stessa. Da questa condizione nasce la necessità di Jep Gambardella di trovare nuovi spazi liberi, incontaminati, puri che però, come ricorda il sociologo polacco, non esistono più. La sua (e la nostra) è una ricerca vana (e infatti infruttuosa). Quello che rimane davanti agli occhi di Tony Servillo è solamente un senso di eterno e continuo disfacimento, un’insostenibilità ad infinitum, per usare le parole di Bauman. Dopo aver prodotto centinaia, migliaia, milioni di rifiuti, anche umani, ci troviamo tutti, Jep Gambardella compreso, nel perenne rischio di divenire, a nostra volta, scorie. Pattume umano di questa modernizzazione, scarto dell’opulenta società occidentale. Lo sforzo del protagonista de La grande bellezza di cercare un’impossibile catarsi nell’edonismo, nella sfarzo, nel divertimento, come per il Gatsby di Fitzgerald, non è un rifugio ma una prigione, massima rappresentazione di questa realtà ormai liquefatta. Le figure che compongono il quadro di Paolo Sorrentino sono come le Vite di scarto di Zygmunt Bauman, figlie di una realtà immutabile eppure ormai insostenibile.

 

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