Università e lavoro: investire in percorsi mirati
Il presidente Obama sta pensando ad un piano di 500 milioni di dollari in borse di studio per migliorare i community college, ovvero lo “scambio” tra le università pubbliche che permettono agli studenti di ottenere una laurea biennale e le aziende. A tale proposito il programma dovrebbe prevedere uno stanziamento di ulteriori cento milioni per formazione e apprendistato.
Negli Stati Uniti il ruolo delle università è cruciale per promuovere un ingresso di qualità nel mondo del lavoro. È così ovunque, in teoria. Ma le università statunitensi hanno dalla loro una propensione consolidata nell’individuazione dell’eccellenza, che non può dirsi sempre scontata se guardiamo – ad esempio – alla realtà italiana. Non è un caso che le amministrazioni americane puntino molto sull’istruzione. L’idea che gli Usa siano il Paese delle opportunità, a patto di esserne meritevoli, vale sempre. È vero, però, che talvolta gli Usa sono anche il Paese delle contraddizioni per cui condizioni sociali poco agiate non concedono a tutti le medesime occasioni. La dicotomia pubblico-privato si presta spesso a scherno e snobbismo nei lungometraggi hollywoodiani, ma la verità è che le università statali americane sono, in genere, ottime. Si tenga presente che la maggior parte degli studenti americani non può frequentare gli istituti privati, troppo spesso all’esclusiva portata di tasche particolarmente abbienti.
Non che le università pubbliche costino poco, sia chiaro: le tasse sono infatti aumentate in proporzione all’incremento del costo della vita e i docenti sono anch’essi alle prese con un contenimento salariale inadeguato, data la funzione pedagogica che svolgono. I community college sono tuttavia un’esperienza interessante e la concessione di nuove borse di studio potrà aiutare i giovani laureati a rispondere alle esigenze del mercato del lavoro, soprattutto nei settori ritenuti strategici e in crescita.
Cosa può insegnare il modello americano? Poco, a dire il vero. I sistemi sono così diversi da fare apparire qualsiasi forma di accostamento una forzatura. Tuttavia c’è un aspetto da non sottovalutare: le prospettive post-laurea. Retorica spicciola vuole che in Italia ci siano troppi laureati. I numeri, che abbiamo analizzato in lungo e in largo, dicono esattamente il contrario: le stesse immatricolazioni risultano ora in calo rispetto all’impennata del periodo 2001-2005 (le percentuali sono tra le più basse dei Paesi Ocse). In compenso sono lievitati i titoli universitari, passati dai 172 mila del 2001 ai 293 mila del 2009 (dati AlmaLaurea). Davvero troppi, a ben vedere, al punto da renderli quasi inutili se non carta straccia. Il modello americano insegna dunque come sia più opportuno investire in percorsi mirati e al passo con i tempi, anziché creare uno “spezzatino accademico” che vada disperdendosi – una volta terminati gli studi – nei meandri del mercato del lavoro. Che in Italia è, da diversi anni ormai, ingessato per definizione.
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