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La crisi e le persone inattive in Italia

di Fabio Germani

disoccupazione_lavoro_disuguaglianzeTecnicamente gli inattivi sono le persone che non fanno parte delle forze di lavoro, ovvero quelle che l’Istat non classifica come occupate o in cerca di occupazione. E sempre l’Istituto di statistica tiene a precisare che, osservando le dinamiche del mercato del lavoro, è necessario tenere conto non solo del tasso di disoccupazione, ma anche del tasso di inattività.
In Italia il tasso di inattività per la popolazione tra 15 e 64 anni (periodo di riferimento è il 2013) è stata pari al 36,5%, un valore – dice l’Istat nell’annuario statistico – “significativamente” più elevato di quello medio della Ue-28 (che si attesta al 28%). Il tasso, dunque, è aumentato di due decimi di punto rispetto al 2012. L’incremento riguarda esclusivamente gli uomini (+0,5 in confronto a -0,1 punti percentuali delle donne), ma il valore dell’indicatore per le donne resta molto elevato (riguarda infatti il 46,4% del campione). Critica è soprattutto la situazione nelle regioni del Mezzogiorno, dove tra le donne in età lavorativa oltre sei su dieci non partecipano al mercato del lavoro.
Nella maggior parte dei casi si diventa inattivi nella convinzione di non riuscire a trovare un lavoro. Di “capitale dissipato”, ha parlato di recente anche il Censis nel suo rapporto annuale. Nel 2013 l’incremento degli inattivi ha interessato proprio coloro che, pur disponibili a lavorare, non hanno fatto ricerca attiva.
Quest’area di riferimento è la cosiddetta “zona grigia dell’inattività”, in cui confluiscono gli inattivi che in verità, a determinate condizioni, potrebbero risultare impiegabili. Nel complesso, informa a tale proposito l’Istat, la zona grigia dell’inattività è composta da 3 milioni 414 mila persone, in crescita di 114 mila unità rispetto al 2012 (il 3,5% in più), soprattutto tra gli uomini (+94 mila unità).
Un problema da non trascurare è la quota di Neet (acronimo che sta per Not in Education, Employment or Training) che interessa il nostro paese. Si tratta pur sempre di un problema “europeo”, ma che ci riguarda molto da vicino. I Neet sono i giovani nella fascia di età 15-29 anni che non studiano né lavorano. Per l’Istat sono oltre due milioni, e hanno un costo sia in termini sociali che in termini economici.
Secondo uno studio dell’Eurofound (Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro), nel 2012 i Neet europei erano 14,6 milioni, per una perdita di 162 miliardi di euro. L’Italia è il paese più “colpito”, con una perdita di 35,2 miliardi di euro (2,6 miliardi in più rispetto al 2011), davanti a Francia (23,2 miliardi), Regno Unito (18,7 miliardi) e Spagna (17,3 miliardi).
Tali perdite derivano da due fattori: da un lato la spesa pubblica provocata dall’inattività e dall’altro lato dalle entrate che non avvengono a causa della mancata partecipazione al mercato del lavoro di questa fascia di popolazione.
Al di là dei programmi volti a superare tali ostacoli (vedi Garanzia Giovani) è importante affrontare il problema in maniera decisa perché in Italia, a differenza di quanto avviene in altri paesi, non è solo emarginazione sociale (si pensi ai giovani che provengono da realtà più difficoltose e che non accedono ad un’istruzione adeguata), bensì una questione di scoraggiamento. Nel nostro paese, infatti, tanti ragazzi in possesso di titoli di studio importanti diventano inattivi e rinunciano alla ricerca di lavoro nella convinzione di non poter trovare un impiego all’altezza del percorso intrapreso. Tra questi, altro aspetto da non sottovalutare, sono le donne in particolare le più coinvolte.

(articolo pubblicato su Tgcom24 del 29 dicembre 2014)

 

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