I ritardi dell’Italia in ricerca e sviluppo
Un’annosa questione, riaperta alla luce della vicenda legata all’isolamento del coronavirus allo Spallanzani
di Redazione
«Dopo l’isolamento del coronavirus allo Spallanzani, ecco un buon punto concreto per il confronto nella maggioranza. Rilanciamo la nostra proposta del Piano per l’Italia: l’aumento dei fondi per la ricerca e l’assunzione di 10 mila ricercatori». Così scrive in un post su Facebook il leader del Partito democratico, Nicola Zingaretti. In effetti la questione legata all’isolamento del coronavirus annunciata nella giornata di domenica è stata anche l’occasione per un’immediata riflessione sul ruolo della ricerca in Italia. Una delle ricercatrici alle quali si deve l’isolamento del virus, infatti, risulta essere precaria. E in generale, è noto, l’Italia si posiziona agli ultimi posti per investimenti in ricerca e sviluppo.

Stando alla recente relazione su ricerca e innovazione in Italia del Cnr, si scopre che, pur in presenza di un miglioramento avvenuto tra il 2000 e il 2016 con gli investimenti in R&S tornati a crescere (dall’1% all’1,4%), l’Italia si colloca al di sotto di molti partner europei, dove il rapporto tra investimenti in R&S e Pil è quasi del 2%.
Per quanto riguarda il numero di ricercatori presenti nel nostro paese, anche qui presentiamo delle criticità, nonostante si sia registrata a partire dal 2005 una crescita di circa 60 mila unità. La maggior parte dei ricercatori opera in ambito universitario, anche se il numero (oltre 75 mila) è stabile da diverso tempo, mentre sono aumentati nel periodo considerato (2005-2016) soprattutto quelli nelle imprese private (che sono oltre 70 mila).
Altra questione che è emersa alla luce della vicenda delle ricercatrici dello Spallanzani è quella legata all’essere, appunto, donne. Secondo le stime, entro il 2025 il divario di genere potrebbe sparire o comunque ridursi notevolmente nelle istituzioni pubbliche e nelle università. Ciò sarà dovuto principalmente ad un incremento di ricercatrici, le quali però restano più penalizzate nella progressione di carriera dei colleghi uomini.