La “doppia faccia” dello smart working
Da un lato strumento utile per ottimizzare i tempi lavorativi, dall’altro rivoluzione culturale che avrà un impatto su economia e altri settori: una questione non più rinviabile
di Redazione
Ricorso allo smart working e crollo del turismo: un mix micidiale per bar, ristoranti e le altre attività del food, soprattutto nelle mete turistiche, nei centri cittadini e nei quartieri ad alta densità di uffici. Secondo un recente sondaggio condotto tra circa 300 imprese associate a Fiepet, la federazione italiana dei pubblici esercizi aderente a Confesercenti, un’impresa su tre registra un calo di oltre la metà del fatturato e il 21,8%, oltre due attività su dieci, teme la chiusura. Se la situazione dovesse continuare, l’87,5% degli intervistati valuterà di ridurre i dipendenti definitivamente.
C’è da considerare, poi, rileva Confesercenti, che «lo svuotamento delle città è impressionante»: quest’estate mancheranno all’appello, oltre ai circa 11 milioni di turisti stranieri, almeno 1,6 milioni di dipendenti pubblici in smart working, con serie conseguenze per il settore del food. Lo smart working è dunque da demonizzare? Il dibattito sull’argomento è stato, nelle ultime settimane, piuttosto vivace. Ma si tratta, in ogni caso, di una modalità lavorativa che presenta anche dei vantaggi, a patto che l’economia – nel suo complesso – sappia adattarsi ai nuovi modelli di business e di sviluppo.
In che modo lo smart working è stato utile durante l’emergenza sanitaria? Lo shock organizzativo familiare provocato dal lockdown – ad esempio risponde l’Istat nel Rapporto annuale 2020 – ha potenzialmente interessato tutti i nuclei con figli minori ed entrambi i genitori, o l’unico genitore, occupati/o. Si tratta di quasi tre milioni di famiglie. Una simulazione porta a stimare in quasi 900 mila quelle più esposte a tale criticità, a causa della professione dei genitori che ha richiesto la presenza fisica sul luogo di lavoro. Per le altre famiglie il lavoro a distanza potrebbe aver facilitato la gestione familiare, offrendo l’opportunità di testare in che misura lo smart working possa aiutare la conciliazione dei tempi di vita, una volta superata l’emergenza.
L’organizzazione del lavoro nel nostro paese è ancora molto rigida. Prima dell’epidemia, osserva l’Istat, lo smart working interessava un segmento limitatissimo di attività e di lavoratori: solo un milione e 300 mila occupati aveva usato la propria casa come luogo principale o secondario/occasionale di lavoro, pur stimando che fossero almeno sette milioni quelli che esercitavano professioni potenzialmente in grado di consentirlo. Poi l’emergenza sanitaria ha imposto il passaggio repentino al lavoro da casa in molti settori come strumento indispensabile per contenere i rischi sulla salute pubblica. Anche a emergenza conclusa, si legge nel Rapporto, il lavoro a distanza potrà rappresentare uno strumento potente per ottimizzare tempi lavorativi, ridurre costi ed effetti ambientali. In questa prospettiva le competenze digitali si accreditano come fattore cruciale per aumentare la velocità di adattamento del nostro mercato del lavoro e ridurre i rischi di disoccupazione e segmentazione.